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PROMESSI SPOSI [CAP. XVI-XIX]

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Messaggio Da raffaele43 Mer Set 28, 2011 3:49 pm

CAPITOLO XVI

Renzo in fuga verso Bergamo. – La folla da ogni parte gridò a Renzo di scappare, di rifugiarsi in un convento o in una chiesa; ma Renzo, in quanto allo scappare, non aveva bisogno di consigli; in quanto al convento e alla chiesa, aveva deciso di andare, senza fermarsi, finché non fosse fuori non solo dalla città, ma dal ducato, perché – pensava – finche posso esser uccel di bosco, non voglio diventare uccel di gabbia. Aveva perciò disegnato di trovare rifugio in quel paese del territorio di Bergamo, dov’era accasato suo cugino Bortolo, che più volte l’aveva invitato ad andar là.

Dopo aver chiesto ad una persona, che gli ispirò fiducia, la strada per andare a Bergamo, attraversò la piazza del Duomo, rivide il forno delle grucce, arrivò al convento dei cappuccini, e sospirando disse tra sé che il consiglio di stare in chiesa ad aspettare il padre Bonaventura era stato buono.

Giunto alla Porta Orientale, vide un mucchio di gabellieri, rinforzati da soldati spagnoli; ma stavano tutti attenti a non lasciar entrare la gente del contado, così che Renzo poté uscire senza che nessuno gli dicesse nulla, sebbene il cuore gli battesse forte. Vedendo a diritta una viottola, entrò in quella, per evitare la strada maestra, e camminò un pezzo prima di voltarsi indietro. Trovava cascine e villaggi, ma tirava innanzi senza domandarne il nome: era certo di allontanarsi da Milano, sperava di andar verso Bergamo, e questo per il momento gli bastava.

Intanto cercava di raccapezzare le cose dette e fatte la sera avanti, di scoprir la parte segreta della sua dolorosa storia, e soprattutto come la polizia avesse potuto conoscere il suo nome. I suoi sospetti cadevano naturalmente sulla guida sconosciuta, alla quale si rammentava bene d’averlo spiattellato.

Renzo si tiene lontano dalla via maestra. – Dopo aver camminato un pezzo alla ventura, risolvette di chiedere la strada, come aveva fatto in Milano, al primo viandante la cui fisionomia gli andasse a genio. Costui gli rispose che era fuor di strada e gli indicò quella giusta; ma Renzo, per non battere la via maestra, procedette a zig-zag, così che, dopo forse dodici miglia, si trovava distante da Milano non più di sei, e, in quanto a Bergamo, era molto se non se ne era allontanato.

Gli venne allora in mente di scovare, con qualche astuzia, il nome di qualche paese vicino al confine, al quale si potesse andare per strade comunali; e domandando di quello, si farebbe insegnar la strada, senza seminar qua e là quella domanda di Bergamo, che gli pareva puzzar tanto di fuga, di sfratto, di criminale.

Entra in una piccola osteria. – Strada facendo, vide pendere una frasca da una cosuccia solitaria, fuori di un paesello, e poiché sentiva crescere il bisogno di ristorare le sue forze, vi entrò e chiese un boccone. Non c’era che una vecchia, con la rocca al fianco e col fuso in mano, la quale gli offrì un po’ di stracchino e del buon vino, che gli era venuto in odio per quello scherzo che gli aveva fatto la sera avanti. La vecchia tempestò il suo ospite di domande sui gran fatti di Milano; ma Renzo non solo seppe schermirsi dalle domande, ma le chiese come si chiamasse quel paese, piuttosto grosso, sulla strada di Bergamo, vicino al confine, però nello Stato di Milano. La vecchia gli rispose che il paese richiesto non poteva essere che Gorgonzola.

Entra nell’osteria di Gorgonzola. – Col nome di Gorgonzola sulle labbra, di paese in paese, vi arrivò un’ora prima di sera, col proposito di farvi un’altra fermatina, per fare un pasto un po’ più sostanzioso e per informarsi della distanza dell’Adda e di qualche traversa che portasse fin là. Fatti alcuni passi, vide un’insegna, entrò; e all’oste, che gli venne incontro, chiese un boccone e una mezzetta di vino: le miglia di più e il tempo gli avevano fatto passare quell’odio così estremo e fanatico. C’erano in quella stanza alcuni sfaccendati, i quali, dopo aver discusse e commentate le grandi notizie di Milano del giorno avanti, si struggevano di sapere un poco come fosse andata anche in quel giorno. Uno di essi si accostò a Renzo e gli domandò se veniva da Milano, ma il giovane rispose asciutto asciutto che veniva da Liscate, cioè da uno dei paesi che aveva attraversato per giungere a Gorgonzola. Quando poi l’oste venne a mettere in tavola, gli domandò quanto distasse l’Adda e quali fossero i luoghi dove poter passare; ma l’oste, dopo avergli detto che il fiume era lontano circa sei miglia, gli ficcò in viso due occhi pieni di una curiosità così maliziosa, che gli fece morire tra i denti le altre domande che aveva preparato.

Il mercante di Milano. – Mentre Renzo mangiava e gli avventori discorrevano dei recenti disordini, giunse a cavallo un mercante di Milano, che, andando più volte l’anno a Bergamo per i suoi traffici, era solito passar la notte in quell’osteria. Tutti gli si affollarono intorno, chiedendo notizie di Milano; ed il mercante cominciò a raccontare, con tono di manifesta ostilità contro i rivoltosi, che in quella stessa mattina si era fatto un nuovo tentativo di assalire la casa del vicario (un signore dabbene e puntuale nei pagamenti; ed egli lo poteva dire, che lo serviva di panno per le livree della servitù!), ma il tentativo era fallito per l’intervento dei micheletti; che era stato saccheggiato il forno del Cordusio, e che quei manigoldi vi avrebbero appiccato il fuoco, se un galantuomo del vicinato non avesse messo ad una finestra un Crocifisso, e se non fossero poi arrivati in processione i monsignori del duomo ad ammonire che il pane era a buon mercato e che vi era l’avviso sulle cantonate.

Il mercante aggiunse che molti dei più accesi erano stati arrestati e che certamente sarebbero stati impiccati: la giustizia aveva anzi acchiappato uno in un’osteria, che non si sapeva da che parte fosse, né da chi fosse mandato, né che razza di uomo fosse, ma certo uno dei capi, il quale, mentre veniva condotto in carcere, era stato liberato dai suoi compagni, che facevano la ronda intorno all’osteria.

Renzo si rimette in cammino. – A questo punto l’oste, che era stato anche lui a sentire, andò verso l’altra cima della tavola, per vedere cosa faceva quel forestiero. Renzo, a cui quel poco mangiare era andato in tanto veleno e gli pareva mille anni d’esser fuori da quella osteria, colse l’occasione, chiamò l’oste con un cenno, gli chiese il conto, lo saldò senza tirare; e, senza fare altri discorsi, andò diritto all’uscio e s’incamminò dalla parte opposta a quella per cui era venuto.

CAPITOLO XVII

Renzo nella notte verso l’Adda. – Le sciagurate parole del mercante avevano accresciuto a Renzo le opposte voglie di correre e di star nascosto. Pensava che chi sa quanti birri erano in campo per dargli la caccia, ma pensava pure che quelli che lo conoscevano erano due soli, e che il nome non lo portava scritto in fronte.

Dapprima, sebbene avesse lasciato Gorgonzola che scoccavano le ventiquattro, e le tenebre diminuissero sempre più i pericoli, prese contro voglia la via maestra; ma ben presto, quando vide aprirsi una straducola a mancina, vi entrò. Mentre andava, dialogava nella sua mente col mercante e immaginava di ricacciargli in gola tutte le spudorate invenzioni.

Dopo qualche tempo la paura di essere inseguito non gli diede ormai più fastidio, ma quante cose rendevano il viaggio molto più noioso! Le tenebre, la solitudine, la stanchezza, e una brezzolina sottile che non doveva essere affatto piacevole a chi si trovava ancora indosso gli abiti da sposo; e, soprattutto, quell’andare alla ventura, cercando un luogo di riposo e di sicurezza.

Quando s’abbatteva a passare per qualche paese, andava adagio adagio, guardando però se ci fosse qualche uscio aperto; ma non vide mai altro segno di gente desta, che qualche lumicino trasparente da qualche impannata. Nella strada fuor dell’abitato, si soffermava ogni tanto, e stava in orecchi per veder se sentiva quella benedetta voce dell’Adda, ma invano. Altre voci non sentiva che un mugolio di cani, che veniva da qualche cascina isolata.

L’Adda. – Arrivò finalmente dove la campagna coltivata moriva in una sodaglia sparsa di felci e di scope. Gli parve, se non indizio, almeno un certo quel argomento di fiume vicino, e s’inoltrò per quella, seguendo un sentiero che l’attraversava. A poco a poco si trovò tra macchie più altre, di pruni, di quercioli, di marruche. Andando ancora, sempre per lo stesso sentiero, s’accorse di entrare in un bosco. Provava un certo ribrezzo ad inoltrarvisi, ma lo vinse, e contro voglia andò avanti; ma più che s’inoltrava, più il ribrezzo cresceva, più ogni cosa gli dava fastidio. Gli alberi che vedeva in lontananza gli rappresentavano figure strane, deformi, mostruose; la brezza notturna gli batteva più rigida e maligna sulla fronte e sulle gote, e penetrava più acuta nelle ossa rotte dalla stanchezza. A un certo punto si fermò sui due piedi a deliberare se proseguire il cammino o tornare indietro per la strada già fatta a cercare un ricovero, anche un’osteria; quando, stando così fermo, sospeso il fruscio dei piedi nel fogliame, cominciò a sentire un mormorio d’acqua corrente. Era l’Adda! Fu il ritrovamento d’un amico, d’un fratello, d’un salvatore. E non esitò ad internarsi sempre più nel bosco, dietro all’amico rumore.

Arrivò in pochi momenti all’estremità del piano, sull’orlo d’una riva profonda; e guardando in giù tra le macchie, che tutta la rivestivano, vide l’acqua luccicare e correre, e, sull’altra riva, sopra un colle, una gran macchia biancastra, che gli parve dover essere una città, Bergamo sicuramente. Scese un po’ sul pendio, guardò giù se qualche barchetta si muovesse nel fiume, ma non vide né sentì nulla.

Renzo dorme in una capanna. – Renzo si mise allora a consultare tra sé, sul partito da prendere, poiché mancavano circa sei ore all’aurora. Gli venne in mente di aver veduto, in uno di quei campi più vicini alla sodaglia, una di quelle capanne coperte di paglia, costruite di tronchi e di rami, dove i contadini del milanese usano l’estate depositare il raccolto. La disegnò subito per suo albergo; ripassò il bosco, le macchie, la sodaglia, e vi entrò. Vide per terra un po’ di paglia, e pensò che anche lì una dormitina sarebbe ben saporita.

Prima però di sdraiarsi su quel letto che la Provvidenza gli aveva preparato, vi si inginocchiò a ringraziarla di quel beneficio e di tutta l’assistenza che aveva avuta da essa in quella terribile giornata. Disse poi le sue solite devozioni, e, per di più, chiese perdono a Dio di non averle dette la sera innanzi; anzi, per dir le sue parole, di essere andato a dormire come un cane, e peggio.

Appena chiuse gli occhi, cominciò nella sua fantasia una andare a venire di gente, così affollato, così incessante, che addio sonno. Il mercante, il notaio, i birri, lo spadaio, l’oste, Ferrer, il vicario, la brigata dell’osteria, poi don Abbondio, poi don Rodrigo: tutta gente con cui Renzo aveva che dire. Tre sole immagini gli si presentarono non accompagnate da alcuna memoria amara, principalmente una treccia nera ed una barba bianca.

Renzo passa l’Adda. – Quando finalmente il martello di un orologio vicino, forse quello di Trezzo, ebbe battuto undici tocchi, cioè erano le cinque, si levò, disse le devozioni del mattino, uscì dalla capanna e prese il sentiero della sera avanti.

Il cielo prometteva una bella giornata: quel cielo di Lombardia, così bello quando è bello, così splendido, così in pace. Renzo giunse sul ciglio della riva, vide una barchetta di pescatore, che veniva adagio, contr’acqua, e diede una voce leggera al pescatore. Questi, dopo aver guardato attentamente in giro, drizzò la prora e approdò presso Renzo, che saltò dentro la barca e pregò l’uomo che lo traghettasse sull’altra sponda. Poi, vedendo sul fondo della barca un altro remo, cominciò anch’egli a remare, mentre si accertava che quella macchia biancastra, che aveva veduto la notte prima, era Bergamo, e che la riva opposta apparteneva alla Repubblica di Venezia.

Nella Repubblica di Venezia. – Toccata terra, Renzo scese dalla barca e porse una berlina al pescatore, che, dopo aver dato nuovamente un’occhiata in giro, se la mise in tasca, augurò il buon viaggio e tornò indietro. Il giovane, dopo essersi fermato un momentino a contemplare la riva opposta, rimpiangendo le persone care che era stato costretto a lasciare, s’incamminò verso il paese dove abitava il cugino Bortolo Castagneti. Dal primo viandante, a cui si rivolse, seppe che gli rimanevano ancora nove miglia da fare.

Verso il paese del cugino Bortolo. – Quel viaggio non fu lieto, Renzo dovette accorgersi che troverebbe nel paese, in cui s’inoltrava, la penuria che aveva lasciata nel suo. Per tutta la strada incontrava a ogni passo poveri, che non erano poveri di mestiere, e mostravano la miseria più nel viso che nel vestiario. Quella vista, oltre la compassione e la malinconia, lo metteva anche in pensiero dei casi suoi.

Entrò in un’osteria a ristorarsi lo stomaco, e pagato che ebbe, gli rimase ancor qualche soldo, che diede in elemosina ad una famigliola, che accattava presso la porta dell’osteria.

L’incontro con Bortolo. – Arrivato al paese del cugino, distinse subito una casa alta alta, a più ordini di finestre lunghe lunghe, e, riconoscendo in essa un filatoio, entrò e chiese del cugino Bortolo Castagneti. Questi lo accolse con grandi dimostrazioni di affetto, e, quando apprese da Renzo la sua dolorosa storia, promise di interessarsi presso il padrone affinché, nonostante la scarsità di lavoro, lo assumesse nell’azienda. Il padrone gli voleva bene, perché doveva in gran parte a lui la propria fortuna; ed egli era il primo lavorante, anzi il factotum della filanda.

Bortolo raccomandò infine a Renzo di non offendersi se si fosse sentito chiamare baggiano, poiché questo appellativo i bergamaschi, senza intenzione di offesa, chiamavano i milanesi: per essi era come dare dell’illustrissimo a un cavaliere.

CAPITOLO XVIII

Il mandato di cattura contro Renzo. – Quello stesso giorno, 13 di novembre, il podestà di Lecco ricevette un dispaccio da Milano, con l’ordine di arrestare un certo giovane, nominato Lorenzo Tramaglino. Il podestà, fatto chiamare il console del villaggio, si fece condurre da lui alla casa del ricercato, con gran treno di notaio e di birri, e poiché la casa era chiusa, fu sfondato l’uscio e fu fatta una diligente perquisizione, cioè si fece come in una città presa d’assalto.

La voce di quella spedizione si sparse subito per tutto il contorno e giunse alle orecchie di padre Cristoforo, il quale, attonito non meno che afflitto, domandò al terzo e al quarto, per avere qualche lume intorno alla cagione di un fatto così inaspettato, ma non raccolse altro che congetture in aria, e sperando di ricevere qualche notizia più precisa, scrisse al padre Bonaventura. A poco a poco si venne a sapere che Renzo era scappato dalla giustizia, nel bel mezzo di Milano, e poi scomparso; ma poiché Renzo nel paese era conosciuto per un bravo giovane, i più immaginarono che fosse una macchina mossa da quel prepotente di don Rodrigo per rovinare il suo povero rivale.

Il signorotto, per quanto – come sappiamo – non avesse avuto parte nella sciagura di Renzo, se ne compiacque però come se fosse stata opera sua, e ne trionfò coi suoi fidati, principalmente col conte Attilio. Questi che, secondo i suoi primi disegni, avrebbe già dovuto trovarsi a Milano, quando apprese che la canaglia girava per le strade in tutt’altra attitudine che di ricevere bastonate, aveva creduto bene di trattenersi in campagna; e soltanto quando le cose ripresero il loro corso ordinario, partì immediatamente per la città, animando il cugino a persistere nell’impresa e promettendo che avrebbe cercato di sbrigarlo dal frate.

Don Rodrigo apprende dal Griso il rifugio di Lucia. – Appena partito Attilio, arrivò il Griso da Monza e riferì al suo padrone che Lucia era ricoverata nel tal monastero, sotto la protezione della tal signore, e che vi stava sempre nascosta, come se fosse anch’essa una monaca, non mettendo mai piede fuor della porta.

Questa relazione mise il diavolo addosso a don Rodrigo, o, per dir meglio, rese più cattivo quello che già ci stava di casa; e infiammò sempre più la sua passione, cioè quel misto di puntiglio, di rabbia e d’infame capriccio, di cui essa era composta. Un monastero di Monza, quand’anche non ci fosse stato una principessa, era un osso troppo duro per i suoi denti; e per quanto egli ronzasse con la fantasia intorno a quel ricovero, non sapeva immaginare né via né verso di espugnarlo, né con la forza, né per insidie.

Don Rodrigo pensa di rivolgersi all’Innominato. – Fu quasi per abbandonare l’impresa, ma poi, per non aver la baia dagli amici e dal cugino, e per non darla vinta a un villano e a un frate, gli venne in mente di chiedere l’aiuto di un tale, le cui mani arrivavano spesso dove non arriva la vista degli altri: un uomo o un diavolo, per cui la difficoltà delle imprese era spesso uno stimolo a prenderle sopra di sé. Questo partito aveva i suoi inconvenienti e i suoi rischi, ma don Rodrigo non esitò ad abbracciarlo, quando ricevette una lettera del conte Attilio, che faceva un gran coraggio e minacciava grandi canzonature e quando apprese che padre Cristoforo era partito dal convento di Pescarenico e che Agnese era tornata a casa, lasciando sola Lucia. Ecco la spiegazione di questi due avvenimenti.

Lucia e Agnese apprendono la notizia della fuga di Renzo. – Lucia e Agnese si erano appena accomodate- come sappiamo – nel monastero di Monza, quando si sparse la notizia dei disordini di Milano e della fuga di Renzo. Ci si può immaginare come rimanessero la madre e la figlia, finché un giovedì capitò al monastero un pescaiolo di Pescarenico, che andava a Milano, secondo l’ordinario, a spacciar la sua mercanzia, e che era stato incaricato da padre Cristoforo di avvertire le due donne che Renzo si era messo in salvo sul bergamasco. Il buon padre aggiungeva parole di conforto e prometteva che ogni settimana avrebbe fatto loro sapere sue nuove, per quel mezzo o altrimenti.

Il secondo giovedì tornò quel pescaiolo coi saluti di padre Cristoforo e con la conferma della fuga felice di Renzo, ma il terzo giovedì non si vide nessuno, ciò che fu per le povere donne cagione d’inquietudine e di cento sospetti molesti.

Agnese decide di ritornare al paese. – Allora Agnese, poiché Lucia non correva nessun pericolo in un asilo così guardato e sacro, risolvette di fare una scappata a casa; e il giorno seguente, dopo aver atteso sulla strada il pescaiolo che tornava da Milano, gli chiese per cortesia un posto sul baroccio e si fece trasportare a Pescarenico. Smontò sulla piazzetta del convento, e, giacché era lì, volle, prima di andare a casa, vedere il suo buon padre Cristoforo; ma fra Galdino, quel delle noci, le disse che il padre era stato mandato a Rimini per predicare. Agnese, a tale notizia, si era incamminata verso il suo paesetto desolata e confusa, come il povero cieco che avesse perduto il suo bastone.

Attilio dal conte zio. – Ecco come era andata la cosa. Il conte Attilio, appena arrivato a Milano, si era recato, come aveva promesso a don Rodrigo, a far visita al conte zio del Consiglio Segreto, che era una consulta di tredici personaggi, i quali assistevano il Governatore e lo sostituivano in caso di morte. Il conte zio, uno degli anziani del Consiglio, vi godeva un certo credito, ma nel farlo valere, e nel farlo rendere con gli altri, non c’era il suo compagno, come quelle scatole che si vedono ancora in qualche bottega di speziale, e con su certe parole arabe, e dentro non c’è nulla, ma servono a mantenere il credito alla bottega. Tale credito, che era sempre andato crescendo a lentissimi gradi, aveva fatto ultimamente un passo, come si dice, di gigante, per un viaggio a Madrid con una missione alla corte, dove, per non dir altro, il conte duca l’aveva trattato con una degnazione particolare, a segno d’avergli una volta domandato, in presenza si può dire di mezza corte, come gli piacesse Madrid, e d’avergli un’altra volta dietro a quattr’occhi, nel vano di una finestra, che il duomo di Milano era il tempio più grande che fosse negli stati del re.

Il conte Attilio, fatti i suoi complimenti al conte zio, gli raccontò travisati i fatti di don Rodrigo e di padre Cristoforo, dicendo che questi aveva preso a proteggere gelosamente una contadinotta e che s’era cacciato in testa che don Rodrigo avesse dei disegni sulla ragazza, mentre egli aveva divisato di farla sposare a un cattivo soggetto, nientemeno che a quel Lorenzo Tramaglino. Aggiunse che il frate andava dicendo, che ci trovava più gusto a spuntarla con don Rodrigo, perché sapeva che egli era protetto da uno zio di tanta autorità, e che se la rideva dei grandi e dei politici, e che il cordone di san Francesco teneva legate anche le spade.

Il conte zio promette di occuparsi della cosa. – Il conte zio, dopo aver preso nota del nome del frate, e dopo essersi lamentato che don Rodrigo avesse lasciato andar le cose tanto avanti senza rivolgersi a lui, promise che si sarebbe occupato della cosa; poi il conte Attilio, dopo aver insinuato che sarebbe stato opportuno pregare, il padre provinciale di far cambiare aria al frate, si congedò con grandi scuse e grandi ringraziamenti. Il conte zio lo salutò con un «e abbiamo giudizio», che era la formula di commiato per i suoi nipoti.

CAPITOLO XIX

Il conte zio e il padre provinciale. – Il conte zio, dopo il colloquio col nipote, comprese che tutto quello che si poteva fare contro padre Cristoforo era di cercar di allontanarlo, e il mezzo a ciò era il padre provinciale, in arbitrio del quale era l’andare o lo stare di quello.

Ora, tra il conte zio e il padre provinciale passava una antica conoscenza; s’eran veduti di rado, ma sempre con gran dimostrazioni d’amicizia e con esibizioni sperticate di servizi.

Tutto ben ponderato, il conte zio invitò un giorno a pranzo il padre provinciale, e gli fece trovare una corona di commensali assortiti con un intendimento sopraffino. Qualche parente dei più titolati, che col solo contegno riuscivano, anche senza farlo apposta, a imprimere ogni momento l’idea della superiorità e della potenza, e alcuni clienti legati alla casa, che, cominciando dalla minestra a dir di sì, alle frutta avevano ridotto un uomo a non ricordarsi più come si facesse a dir di no.

A tavola il conte zio cominciò a parlare del suo famoso viaggio a Madrid, e dei suoi rapporti con la corte, col conte duca, coi ministri, con la famiglia del governatore; ma il padre provinciale, a sua volta, tirò il discorso sul cardinale Barberini, che era cappuccino e fratello, nientemeno, del papa allora sedente, Urbano VIII.

Poco dopo, alzati da tavola, il conte zio pregò il padre provinciale di passare con lui in un’altra stanza. Due podestà, due canizie, due esperienze consumate si trovavano a fronte. Il conte zio, dopo un preambolo amichevole, tirò il discorso sul padre Cristoforo, che doveva essere un uomo amico dei contrasti….. e che aveva preso a proteggere un cattivo soggetto, scappato dalle mani della giustizia, quel tale Lorenzo Tramaglino…. Si trattava, insomma, di un affare delicato, per il quale poteva essere fatto dal governo qualche passo a Roma…. Per giunta lo stesso padre s’era messo a cozzare con suo nipote, don Rodrigo, e ne poteva nascere uno scandalo, impegnarsi il puntiglio, l’onore del casato…

Il padre provinciale, dal canto suo, tentò difendere padre Cristoforo, dicendo che, se si era interessato per quel soggetto, non aveva potuto farlo che a fin di bene, per ridurre un traviato, e che il passato del padre era una gloria dell’abito, poiché questo lo aveva fatto diventare un tutt’altro uomo, e che egli avrebbe preso informazioni.

Ma il conte, che non intendeva questa faccenda delle informazioni, invitò il suo interlocutore, per amor di pace, ad accomodare la cosa: «Sopire, troncare, padre molto reverendo: troncare, sopire».

La conclusione fu che il padre provinciale, approfittando dell’occasione che gli veniva chiesto un predicatore da Rimini, pensò bene, in cambio di una vaga dimostrazione di amicizia che don Rodrigo avrebbe fatto per i cappuccini, di spedire padre Cristoforo da Pescarenico a Rimini, che è una bella passeggiata.

Una sera arrivò a Pescarenico un cappuccino di Milano, con un plico per il padre guardiano, contenente l’obbedienza per padre Cristoforo. Fu un colpo grave per il nostro frate, che pensò subito a Renzo. Lucia ed Agnese; ma subito si pentì d’aver mancato di fiducia, di essersi creduto necessario a qualche cosa. Chinò la testa, prese la sua sporta col pane del perdono, salutò i confratelli, prese la benedizione del padre guardiano, e s’incamminò per la strada che gli era stata prescritta.

L’Innominato. – Intanto don Rodrigo, intestato più che mai di avere nelle sue mani Lucia, si era risoluto – come già è stato accennato – di cercare l’aiuto di un terribile uomo.

L’anonimo tace studiosamente il nome di costui, ma il personaggio è storico, e il Ripamonti nella sua Storia Patria ne parla come di un pauroso appaltatore di delitti. Le sue passioni principali erano state, in ogni tempo, fare ciò che era vietato dalle leggi, o impedito da una forza qualunque; esser arbitro e padrone negli affari altrui, senz’altro interesse che il gusto di comandare; esser temuto da tutti; aver la mano da coloro che erano soliti averla dagli altri.

Aveva in tal modo commesso, per conto suo o per conto d’altri, tanti delitti, che era stato costretto a uscir dallo Stato; ma era partito a cavallo, con un seguito di cani, a suon di tromba, e, passando davanti al palazzo di corte, aveva lasciato alla guardia un’ambasciata di insolenze per il governatore.

Nell’assenza aveva continuato a mantenere relazioni coi suoi amici, i quali – secondo le parole del Ripamonti – rimasero uniti a lui «in lega occulta di consigli atroci e di cose funeste».

Finalmente (non si sa per quali ragioni) era ritornato in patria, e si era stabilito in un castello confinante col territorio Bergamasco, che allora era Stato veneto.

Tutti i tiranni, per un bel tratto di paese all’intorno, avevano dovuto, chi in un’occasione e chi in un’altra, scegliere tra l’amicizia e l’inimicizia di quel tiranno straordinario. Ma chi aveva scelto l’inimicizia, si era ben presto pentito.

Don Rodrigo e l’Innominato. – Anche don Rodrigo, il cui palazzotto distava dal castello dell’Innominato non più di sette miglia, aveva dovuto comprendere che, a così poca distanza da un tal personaggio, non era possibile fare il tiranno senza venire alle prese o andar d’accordo con lui. Perciò gli si era offerto e gli era divenuto amico, gli aveva reso più di un servizio (il manoscritto non dice di più), e ne aveva riportate ogni volta promesse di contraccambio e di aiuto, in qualunque occasione. Metteva però molta cura a nascondere una tale amicizia, perché voleva bensì fare il tiranno, ma non il tiranno selvatico: voleva dimorare liberamente in città; godere i comodi, gli spassi, gli onori della vita civile; e perciò bisognava che usasse certi riguardi, tenesse di conto parenti, coltivasse l’amicizia di persone alte, avesse una mano sulle bilance della giustizia, per farle a un bisogno traboccare dalla sua parte, o per farle sparire, o darle anche, in qualche occasione, sulla testa di qualcheduno.

Una mattina don Rodrigo uscì a cavallo, in tenuta da caccia, con una piccola scorta di bravi a piedi; il Griso alla staffa e quattro altri in coda, e s’avviò al castello dell’Innominato.
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