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PROMESSI SPOSI [CAP. I-V]

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Messaggio Da raffaele43 Mer Set 28, 2011 3:44 pm

CAPITOLO I

Quel ramo del lago di Como. – Il romanzo si apre con la celebre descrizione di quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno tra due catene non interrotte di monti, e che viene quasi ad un tratto a restringersi e a prendere corso e figura di fiume, tra un promontorio a destra ed un’ampia costiera dall’altra parte. Tra il promontorio e la costiera è un ponte, che sembra rendere ancora più sensibile quella trasformazione, e segnare il punto in cui il lago cessa e l’Adda ricomincia. La costiera, formata dal deposito di tre grossi torrenti, scende appoggiata a due monti contigui, l’uno detto di San Martino, l’altro il Resegone, dai molti suoi cocuzzoli che lo fanno assomigliare a una sega.

Lecco. – Lecco, il borgo principale che dà il nome a quel territorio, giace poco discosto dal ponte, sulla riva del lago. Ai tempi in cui accaddero i fatti narrati nel romanzo, quel borgo era anche una fortezza, che aveva l’onore di alloggiare un comandante e il vantaggio non invidiabile di possedere una guarnigione di soldati spagnoli. Dietro Lecco, dall’una all’altra di quelle terre, dalle alture alla riva, corrono strade e stradette più o meno ripide o piane.

La passeggiata di don Abbondio. - Per una di queste stradicciole, tornava bel bello dalla sua passeggiata verso casa, sulla sera del giorno 7 novembre 1628, don Abbondio, curato di uno di quei paesi. Diceva tranquillamente il suo ufficio e, talvolta, tra un salmo e l’altro, chiudeva il breviario, e proseguiva il suo cammino buttando con un piede verso il muro i ciottoli che facevano inciampo al sentiero, o girando oziosamente gli occhi intorno. Giunse ad una svolta, dove era solito alzare gli occhi dal libro e guardarsi dinanzi, e così fece anche quel giorno. Dopo la voltata la strada correva diritta per circa sessanta passi, poi si biforcava: una viottola saliva alla curia, l’altra, il cui muro non arrivava ai fianchi del passeggero, scendeva alla valle fino al torrente. I muri interni delle due viottole, invece di riunirsi ad angolo, terminavano in un tabernacolo, sul quale erano dipinte certe figure lunghe e serpeggianti, che, nell’intenzione dell’artista, volevano dir fiamme, e cert’altre figure indescrivibili che volevano dire anime del purgatorio.

L’incontro coi bravi. - Don Abbondio, voltata la stradetta, e guardando come era solito, verso il tabernacolo, vide fermi due uomini: uno a cavalcioni sul muricciolo basso, l’altro in piedi, appoggiato al muro, con le braccia incrociate sul petto. Essi, per l’abito e per il portamento, mostravano a prima vista di essere due bravi, cioè uomini che, al servizio di qualche ricco e potente signore, commettevano ribalderie di ogni genere. I governatori spagnoli avevano promulgato molte grida (o editti) contro questi furfanti, ma esse non erano servite ad altro che ad attestare l’impotenza del governo d’allora.

La minacciosa intimazione. – Era evidente che i due bravi erano ad attendere qualcuno; ma ciò che più dispiacque a don Abbondio fu il dover accorgersi, per certi atti, che l’aspettato era proprio lui. Egli, tenendo sempre il breviario aperto dinanzi, come se leggesse, spingeva lo sguardo in su, per spiare le loro mosse, e, vedendoseli venire proprio incontro, fu assalito da mille pensieri. Si chiese se tra i bravi e lui ci fosse qualche uscita di strada, a destra o a sinistra, ma si sovvenne subito di no. Fece un rapido esame, se avesse peccato contro qualche potente, ma anche in quel turbamento la coscienza lo rassicurava. Intanto i bravi si avvicinavano, guardandolo fisso. Mise l’indice e il medio della mano sinistra nel collare, come per raccomodarlo, e, girando le due dita intorno al collo, volse la faccia all’indietro, allo scopo di guardare con la coda dell’occhio se qualcuno arrivasse; ma non vide nessuno. Non potendo perciò schivare il pericolo, affrettò il passo, perché i momenti di quell’incertezza gli erano così penosi, che non desiderava altro che abbreviarli. Recitò un versetto a voce più alta, compose la faccia a tutta quella quiete e ilarità che poté, e, quando si trovò di fronte ai due galantuomini, si fermò sui due piedi.

I due bravi, con un tono minaccioso, diffidarono don Abbondio, in nome del loro padrone don Rodrigo, dal celebrare il matrimonio tra Renzo Tramaglino e Lucia Mondella, che avrebbe dovuto aver luogo all’indomani, e, nello stesso tempo, gli ingiunsero di non fare parola di ciò a nessuno, altrimenti… E sottolinearono la loro intimazione un ehm! Molto significativo. Don Abbondio, con voce tremante, non seppe balbettare che dei tronchi monosillabi, dichiarandosi umilmente disposto all’obbedienza; e quelli si allontanarono cantando una canzonaccia. Il povero don Abbondio rimase un momento a bocca aperta, come incantato; poi prese la stradetta che conduceva a casa sua, mettendo innanzi a stento una gamba dopo l’altra.

Ritratto di don Abbondio. – Don Abbondio, avverte a questo punto il Manzoni, non era nato con un cuor di leone. Trovatosi a vivere in un’epoca, nella quale la forza legale non proteggeva affatto il debole, aveva dovuto accorgersi di essere nella condizione di un vaso di terracotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro. Aveva perciò volentieri obbedito ai parenti che lo volevano prete, preoccupandosi non tanto degli obblighi e dei nobili fini del ministero, quanto piuttosto di poter vivere con qualche agio e di mettersi in una classe riverita e forte. Si era poi fatto un sistema particolare di vita, che consisteva principalmente nello scansare tutti i contrasti, e nel cedere in quel che non poteva scansare. Se si trovava assolutamente costretto a prender parte tra due contendenti, stava col più forte, sempre però alla retroguardia, e procurando di far vedere all’altro ch’egli non gli era volontariamente nemico, come se gli dicesse: ma perché non avete saputo esser voi il più forte? Era poi un rigido censore degli uomini che non si regolavano come lui, quando però la censura potesse esercitarsi senza alcun pericolo. Il battuto era almeno un imprudente, l’ammazzato era sempre stato un uomo torbido. Aveva infine una sua sentenza prediletta, con la quale sigillava sempre i discorsi su queste materie: che a un galantuomo, il quale badi a sé, e stia nei suoi panni, non accadono mai brutti incontri. In tal modo, destreggiandosi alla meglio, il pover’uomo era riuscito a passare i sessant’anni, senza gravi burrasche.

Il soliloquio di don Abbondio. – Si pensi ora che impressione dovesse fare sull’animo di don Abbondio l’incontro coi bravi, che veniva a sconcertargli in un momento un sistema di quieto vivere, che gli era costato tanti anni di studio e di pazienza. Mentre si avviava col capo basso verso casa, tumultuavano in lui opposti e disordinati pensieri. Pensava quale pretesto avrebbe potuto prendere con Renzo, «un agnello se nessuno lo tocca, ma se uno vuol contraddirgli…». Inveiva contro quei ragazzacci, che, per non saper che fare, s’innamorano e vogliono maritarsi, e non si curano dei travagli in cui mettono un povero galantuomo… Non aveva avuto a che fare con don Rodrigo, altro che toccare il petto col mento e la terra colla punta del suo cappello, quelle poche volte che l’aveva incontrato per la strada; ma in quel momento gli dava in cuor suo tutti quei titoli che non aveva mai udito applicargli da altri, senza interrompere in fretta con un «ohibò».

Perpetua. – Giunto alla porta, che era in fondo al paese, mise in fretta nella toppa la chiave, che già teneva in mano; aprì, entrò, richiuse diligentemente; e, ansioso di trovarsi in una compagnia fidata, chiamò subito la serva Perpetua, avviandosi verso il salotto, dove questa stava apparecchiando la tavola per la cena. Perpetua era una serva affezionata e fedele, che sapeva ubbidire e comandare secondo l’occasione, tollerare a tempo il brontolìo e le fantasticaggini del padrone, e fargli a tempo tollerare le proprie, che divenivano di giorno in giorno più frequenti, da quando aveva passato l’età sinodale dei quarant’anni. Essa era rimasta zitella, per aver rifiutato tutti i partiti che le si erano offerti, come diceva lei, o per non aver mai trovato un cane che la volesse, come dicevano le sue amiche. Vedendo entrare il padrone con un viso così stravolto, comprese subito che doveva essergli accaduto qualche cosa di straordinario.

La confessione di don Abbondio. - Don Abbondio, lasciadosi cadere tutto ansante sul seggiolone, tentò dapprima di eludere le domande della donna, protestando che non gli era accaduto nulla, orinandole di dargli soltanto un bicchiere del suo vino, che vuotò in fretta come una medicina. Ma infine, sia perché Perpetua minacciava di domandar qua e là cosa fosse accaduto al suo padrone, sia perché don Abbondio aveva forse tanta voglia di scaricarsi del suo segreto quanta ne aveva Perpetua di conoscerlo, il povero curato, dopo aver fatto più volte giurare la serva che non fiaterebbe, le raccontò, con molte sospensioni e con molti ohimè, il suo miserabile caso.

I pareri di Perpetua. – La donna, dopo una violenta reazione di sdegno, consigliò don Abbondio di informare di tutto l’arcivescovo, che era un sant’uomo e un uomo di polso; ma il povero curato non volle neppur sentirne parlare, perché, quando gli fosse toccata una schioppettata nella schiena, l’arcivescovo non gliela avrebbe certo potuta togliere. Poi, preso il lume, si avviò brontolando verso la sua camera; ma, giunto sulla soglia, si voltò indietro verso Perpetua, mise il dito sulla bocca, raccomandò ancora caldamente il silenzio «per amor del cielo!» e scomparve.



CAPITOLO II

La notte di don Abbondio. – Si racconta che il principe di Condè dormì profondamente la notte prima della battaglia di Rocroi; ma don Abbondio, che sapeva soltanto che l’indomani sarebbe stato giorno di battaglia, e non aveva meditato alcun piano, passò gran parte della notte in consulte angosciose. Dopo essersi molto rivoltato nel letto, gli parve alfine che il partito migliore fosse quello di guadagnar tempo, menando Renzo per le lunghe, tanto più che mancavano solo pochi giorni al tempo proibito per le nozze, e, se avesse potuto tenere a bada quel ragazzone, avrebbe poi avuto due mesi di respiro, e in due mesi possono nascere molte cose. Presa questa decisione, potè finalmente chiuder occhio: ma che sonno! che sogni! Bravi, don Rodrigo, Renzo, viottole, rupi, fughe, inseguimenti, grida, schioppettate.

Il colloquio tra Renzo e don Abbondio. - Il mattino seguente Lorenzo, o, come dicevan tutti, Renzo, appena gli parve ora da non esser giudicato indiscreto, si presentò a don Abbondio con la lieta furia di un uomo di vent’anni, che deve in quel giorno sposare la donna che ama. Era in gran gala, con penne di vario colore al cappello, con un bel pugnale nel taschino dei calzoni, con una cert’aria di festa e nello stesso tempo di braveria, comune allora anche agli uomini più quieti.

Don Abbondio l’accolse in modo incerto e misterioso. Renzo pensò che il curato avesse qualche pensiero per la testa, e gli chiese subito a quale ora gli faceva comodo che si trovassero in chiesa; ma don Abbondio prima finse di non ricordarsi che quello era il giorno fissato, poi protestò di non sentirsi bene, accennò a imbrogli, a ostacoli, a formalità non ancora compiute, numerando in latino, sulla punta delle dita, gli impedimenti dirimenti; infine chiese quindici giorni, una settimana almeno di tempo. Renzo dapprima si stupì, poi s’infuriò («che vuol ch’io faccia del suo latino-rum!»), ma poi, pur dichiarando che passata la settimana non si sarebbe più appagato di chiacchiere, finì col cedere.

Renzo fa parlare Perpetua. - Uscito dalla casa di don Abbondio, Renzo tornò con la mente su quel colloquio, e sempre più lo trovava strano. Stette in forse un momento di tornare indietro, ma, vedendo Perpetua dinanzi a lui, che entrava in un orticello, si fermò ad attaccare discorso, col proposito di avere qualche maggiore spiegazione. Perpetua, pur giurando di non saper niente, lasciò capire con mezze parole che in tutta quella faccenda il suo padrone non aveva nessuna colpa, ma che si trattava di prepotenti e di birboni, di uomini senza timor di Dio… Renzo, nascondendo a stento l’agitazione che gli cresceva nel cuore, tentò ancora di strapparle il nome di colui che si opponeva al suo matrimonio; ma Perpetua, ripentendo che essa non sapeva nulla, entrò in fretta nell’orto, chiudendo l’uscio.

Nuovo colloquio tra Renzo e don Abbondio. - Allora Renzo, confermato nei suoi sospetti, fu in un momento all’uscio di don Abbondio; si diresse difilato al salotto dove l’aveva lasciato, e con gli occhi stralunati gli chiese il nome del prepotente, che non voleva che egli sposasse Lucia. Don Abbondio, sorpreso e sbiancato come un cencio che esca dal bucato, spiccò un salto dal seggiolone per lanciarsi all’uscio; ma Renzo, che doveva aspettarsi quella mossa, vi balzò prima di lui, girò la chiave e se la mise in tasca. Poi, forse senza avvedersene, mise la mano sul manico del coltello, che gli usciva dal taschino, ed assunse un aspetto così minaccioso, che don Abbondio, come avesse in bocca la tenaglia del cavadenti, fu costretto a rivelargli il nome di don Rodrigo.

«Ah cane!» urlò Renzo. Il povero curato gli dipinse allora con colori terribili il brutto incontro, e lo rimproverò della bella prodezza di avergli voluto cavare di bocca ciò che egli nascondeva per prudenza e per suo bene.

«Posso aver fallato», rispose Renzo, mentre apriva la porta. Don Abbondio, afferrandogli il braccio con la mano tremante, tentò di fargli giurare che avrebbe mantenuto il silenzio, ma il giovane, svincolandosi da lui, se ne partì con furia.

Don Abbondio rimprovera Perpetua. – Don Abbondio, dopo aver richiamato invano il fuggitivo, si mise a chiamare Perpetua; ma questa non rispondeva ed egli non sapeva più in che mondo si fosse. Affannato e balordo, si rispose sul suo seggiolone, cominciando a sentirsi qualche brivido nelle ossa, e chiamando di tempo in tempo, con voce tremolante e stizzosa, Perpetua. Finalmente essa venne, con un gran cavolo sotto il braccio e con la faccia tosta, come se nulla fosse accaduto. Tra i due si svolse un colloquio assai agitato, a base di «voi sola potete aver parlato» e «non ho parlato». Basti dire che don Abbondio ordinò a Perpetua di metter la stanga all’uscio, di non aprire a nessuno, e, se alcuno bussasse, rispondere dalla finestra che egli era andato a letto con la febbre. E si mise a letto davvero.

Renzo a casa di Lucia. – Renzo intanto camminava a passi infuriati verso la casa di Lucia, con la smania di vendicarsi di don Rodrigo. Avrebbe voluto correre alla casa di lui, o, poiché ciò era impossibile, prendere il suo schioppo, appiattarsi dietro una siepe, e, dopo avergli sparato, correre verso il confine e mettersi in salvo. Ma il ricordo di Lucia, scendendo ad un tratto fra quelle bieche fantasie, faceva subentrare al loro posto i migliori pensieri, a cui la sua mente era avvezza. Arrivò così alla casetta di Lucia, che era in fondo al villaggio, e che aveva dinanzi un piccolo cortile, cinto da un morettino.

Appena entrato nel cortile, sentì un ronzìo che veniva da una stanza di sopra. S’immaginò che fossero le amiche e le comari, venute a far corteggio alla sposa, e non volle mostrarsi con quella notizia sul volto. Una fanciulletta, Bettina, che si trovava nel cortile, gli corse incontro, gridando: «lo sposo! Lo sposo!»; ed egli la mandò ad avvertire in segreto Lucia che l’attendeva nella stanza terrena.

Lucia in abito da sposa. – Lucia usciva in quel momento tutta attillata dalle mani della madre. Le amiche se la rubavano, ed essa si andava schermendo con la modestia un po’ guerriera delle contadine. I suoi neri e giovanili capelli, spartiti sopra la fronte, si ravvolgevano dietro il capo in molteplici trecce, trapassati da lunghi spilli d’argento, a guisa d’aureola, come ancora usano le contadine nel Milanese. Intorno al collo aveva un vezzo di granati, alternati con bottoni d’oro a filigrana; portava un bel busto di broccato a fiori, con le maniche separate e allacciate da bei nastrini; una corta gonnella di seta, a pieghe fitte e riunite, due calze vermiglie, due pianelle di seta a ricami.

Colloquio tra Renzo e Lucia. – Lucia, avvertita da Bettina, scese in fretta, e, vedendo la faccia e il portamento di Renzo, gliene chiese la causa, con un presentimento di terrore. Il giovane le raccontò brevemente la storia di quella mattina; e quando essa udì il nome di don Rodrigo: «Ah! – esclamò, arrossendo e tremando, - fino a questo segno!». Renzo le chiese ansioso che cosa sapeva, ma essa lo pregò di non farla parlare prima di aver chiamata la madre e licenziato le donne. Intanto la madre Agnese, messa in sospetto dallo sparire della figlia, era discesa a vedere che cosa c’era di nuovo. Lucia la lasciò con Renzo e andò ad avvertire le donne che per quel giorno non si faceva nulla, perché il curato era ammalato. Le donne si sparsero a raccontare l’accaduto, due o tre andarono fino all’uscio del curato, per verificare se era ammalato davvero.

Perpetua rispose dalla finestra che aveva un febbrone, e così si troncarono le congetture, che già cominciavano a brulicare nei loro cervelli.



CAPITOLO III

Lucia racconta l’incontro con don Rodrigo. – Lucia entrò nella stanza terrena mentre Renzo stava informando Agnese, e, con voce rotta dal pianto, raccontò come pochi giorni prima, mentre tornava dalla filanda ed era rimasta indietro dalle sue compagne, le era passato innanzi don Rodrigo, in compagnia di un altro signore, e aveva cercato di intrattenerla con chiacchiere non punto belle. Essa allora aveva affrettato il passo, raggiungendo le compagne; ma aveva sentito quell’altro signore ridere forte e don Rodrigo dire: «scommettiamo». Il giorno dopo coloro s’erano trovati ancora sulla strada, ma essa era nel mezzo delle compagne, con gli occhi bassi, e l’altro signore sghignazzava e don Rodrigo diceva: «vedremo, vedremo». Per grazia del cielo, quel giorno era l’ultimo della filanda. Essa aveva taciuto ogni cosa a sua madre, per non contristare la buona donna, per non mettere a rischio di viaggiare per molte bocche una storia che doveva esser gelosamente sepolta e che le nozze avrebbero troncata. Aveva però raccontato tutto in confessione al padre Cristoforo, ed egli le aveva consigliato di affrettare le nozze il più possibile e, nel frattempo, di starsene rinchiusa e di pregare il Signore. Fu allora che essa aveva pregato Renzo di concludere prima del tempo stabilito…

Propositi di vendetta di Renzo. – Le parole di Lucia furono troncate da un violento scoppio di pianto, mentre Renzo, correndo innanzi e indietro per la stanza, e stringendo di tanto in tanto il manico del suo coltello, gridava il suo proposito di volersi vendicare di don Rodrigo («Questa è l’ultima che fa quell’assassino!»).

Lucia, tentando di calmare il giovane, propose di andare a stabilirsi lontano, dove colui non sentisse più parlare di loro; ma Renzo obbiettò che il curato non avrebbe dato loro la fede di stato libero, mentre, una volta maritati, tutto sarebbe stato più facile.

Il consiglio di Agnese. – Dopo qualche momento Agnese prese a dire che il diavolo non è poi tanto brutto quanto si dipinge, e che il consiglio di un uomo che ha studiato avrebbe certo potuto aiutarli a trarsi d’imbarazzo. Essa propose a Renzo di recarsi a Lecco, da un certo dottore soprannominato Azzecca-garbugli (ma, per l’amor del cielo, non lo chiamasse così, chè questo era un soprannome!), una cima d’uomo, che aveva liberato molti da ben altri imbrogli. Renzo abbracciò molto volentieri questo parere, e Agnese, levati dalla stia quattro capponi, ai quali avrebbe dovuto tirare il collo per il banchetto di domenica, li consegnò al giovane perché da quei signori non bisognava mai andare con le mani vuote. Renzo uscì dalla parte dell’orto, per non essere veduto dai ragazzi, che gli sarebbero corsi dietro gridando: «lo sposo! Lo sposo!» e, mentre attraversava i campi, ripensando alla sua disgrazia, andava agitando quelle povere bestie secondo i pensieri che gli passavano a tumulto per la mente.

Renzo dal dottor Azzecca-garbugli. – Giunto al borgo, Renzo si fece indicare l’abitazione del dottor Azzecca-garbugli. Entrato in cucina, domandò alla serva se si poteva parlare al signor dottore. Essa, adocchiate le bestie, mise subito loro le mani addosso, benché Renzo si tirasse indietro, perché voleva che il dottore vedesse che egli portava qualche cosa. Questi capitò appunto mentre la donna diceva: «Date qui e andate innanzi», e con un «venite, figliolo», lo fece entrare nello studio. Renzo, ritto davanti al tavolo gremito di carte, con una mano nel cocuzzolo del cappello, che faceva girare con l’altra, cominciò col chiedere se, a minacciare un curato perché non faccia un matrimonio, ci sia penale. Il dottore, credendo che la minaccia l’avesse fatta Renzo, disse che era un caso serio, contemplato in cento gride, e, cacciate le mani in quel caos di carte che aveva sul tavolo, ne prese una, la spiegò, e, tenendola sciorinata in aria, cominciò a leggere. Era una grida del 15 ottobre 1627, emessa dal governatore di don Gonzalo Fernandez de Cordova, che minacciava pene terribili contro tutti i prepotenti, compresi quelli che avessero tentato di impedire un matrimonio.

Mentre il dottore leggeva, Renzo gli andava dietro lentamente con l’occhio, cercando di mirar proprio quelle sacrosante parole, che gli parevano dover essere il suo aiuto. Il dottore, vedendo il nuovo cliente più attento che atterrito, si meravigliava, e, ritenendo che egli fosse il colpevole, gli domandò perché si era fatto tagliare il ciuffo. Per intendere questa uscita, bisogna sapere che a quel tempo i bravi e i facinorosi d’ogni genere usavano portare un lungo ciuffo, che si tiravano poi sul volto, come una visiera, quando affrontavano qualcuno o stimavano necessario di travisarsi. Poiché Renzo, sorpreso, rispose che da povero figliuolo non aveva mai portato ciuffo in vita sua, il dottore, sempre convinto che egli fosse il colpevole, lo esortò a dire tutta la verità, poiché all’avvocato bisogna raccontare le cose chiare, a lui poi tocca imbrogliarle.

Quando Renzo ebbe capito in quale equivoco era caduto il dottore, lo interruppe, dichiarando che la cosa era proprio tutta al rovescio, e che egli non aveva minacciato nessuno, ma che la bricconeria l’avevano fatta a lui e che egli era venuto per ottenere giustizia. Espose quindi il suo caso, nominando quel prepotente di don Rodrigo…

Il dottore, sentendo pronunziare il nome di don Rodrigo, aggrottò le ciglia, aggrinzì il naso rosso, e, storcendo la bocca, dichiarò che non voleva sentire di quelle fandonie e che se ne lavava le mani. Poi spinse Renzo verso l’uscio, chiamò la serva e le ordinò di restituirgli i capponi. Renzo, più attonito e più stizzito che mai, dovette riprendersi le vittime rifiutate e ritornare al paese per raccontare alle donne il bel costrutto della sua spedizione.

Fra Galdino. – Le donne, durante l’assenza di Renzo, dopo essersi tristemente levate il vestito delle feste, si erano messe a consultare di nuovo sul partito da prendere. Agnese parlava dei grandi effetti che si dovevano sperare dai consigli del dottore; ma Lucia diceva che bisognava aiutarsi in tutte le maniere, e che sarebbe stata una gran bella cosa far sapere a padre Cristoforo ciò che era accaduto.

Mentre studiavano il modo di mettere in opera questo disegno, poiché esse in quel giorno non si sentivano il coraggio di andare al convento, distante di là forse due miglia, capitò per buona sorte fra Galdino, un laico cercatore cappuccino, che veniva alla cerca delle noci. Egli, dopo essersi lamentato per la scarsità dell’annata, prese a raccontare il gran miracolo delle noci, operato da padre Macario. Un giorno il padre Macario, passando attraverso il campo di un benefattore, lo vide intento ad abbattere un noce, che da tempo non produceva più frutti. Il buon padre esortò il benefattore a lasciare intatta la pianta, che in quell’anno medesimo avrebbe fatto più fiori che foglie. Il benefattore accondiscese e promise metà della raccolta per il convento. Infatti il noce fece in quell’anno noci a bizzeffe; ma il benefattore, prima di bacchiarle, morì, e il figlio, che era di stampo ben diverso, non solo non tenne fede alla promessa paterna, ma ebbe la temerità di rispondere che non aveva mai sentito dire che i cappuccini sapessero far noci. Un giorno, però, quello scapestrato, che si vantava coi suoi amici del suo bel gesto, volle mostrar loro quello sterminato mucchio di noci; ma ebbe l’amara sorpresa di vedere, al posto delle noci, un bel mucchio di foglie secche. Da allora il convento raccolse ogni anno noci senza fine, e ne faceva tanto olio, che ogni povero veniva a prenderne: perché i conventi dei cappuccini sono come il mare, che riceve acqua da tutte le parti, e la torna a distribuire a tutti i fiumi.

Frattanto Lucia, che era passata nell’altra stanza per prendere le noci, ritornò col grembiule così carico, che Angere le fece un volto attonito e severo per la sua prodigalità. Quindi Lucia pregò il frate di far sapere a padre Cristoforo che aveva gran premura di parlargli.

Partito fra Galdino, Agnese biasimò la figlia per aver fatto una così abbondante elemosina, ma Lucia si giustificò, rispondendo che soltanto in quel modo il frate sarebbe tornato più presto al convento; e Agnese che, coi suoi difettucci, era una gran buona donna e si sarebbe buttata nel fuoco per quell’unica figlia, l’approvò.

Ritorno di Renzo. – Frattanto tornò Renzo, che, gettati i capponi sul tavolo, raccontò il suo abboccamento col dottore. Agnese, stupefatta, avrebbe voluto dimostrare che il suo parere era buono e che Renzo non doveva aver saputo fare la cosa come andava fatta; ma Lucia troncò la discussione, dicendo che sperava di aver trovato un aiuto migliore.

Renzo accolse anche questa speranza, come accade a quelli che sono nella sventura o nell’impiccio; ma esclamò che, se non si fosse trovato un ripiego, avrebbe saputo farsi ragione da solo.

Le donne consigliarono la pace, la pazienza, la prudenza; e, poiché incominciava ad imbrunire, si separarono tristemente, augurandosi la buona notte.

Renzo, col cuore in tempesta, se ne tornò verso casa, ripetendo tra sé: «A questo mondo c’è giustizia finalmente!». Tant’è vero – commenta il Manzoni – che un uomo sopraffatto dal dolore non sa più quel che si dica.

CAPITOLO IV

Il triste paesaggio d’autunno. – Il sole non era ancor tutto apparso sull’orizzonte, quando il padre Cristoforo uscì dal suo convento di Pescarenico, per salire alla casetta di Lucia. Pescarenico è un borgo di pescatori, che si trova sulla riva sinistra dell’Adda, o meglio del Lago, poco discosto dal ponte. Il convento era situato (e l’edificio ancora sussiste) al di fuori del borgo, lungo la strada che da Lecco conduce a Bergamo.

Il cielo era tutto sereno, un venticello d’autunno staccava dagli alberi le foglie appassite dei gelsi, nelle vigne brillavano le foglie rosseggianti a varie tinte, ma ogni figura d’uomo rattristava lo sguardo e il pensiero. Ogni tanto si incontravano mendichi laceri e macilenti, che s’inchinavano al padre, per l’elemosina che avevano ricevuta o che andavano a cercare al convento; i lavoratori sparsi nei campi gettavano con risparmio la semente o lavoravano svogliatamente la zolla; la fanciulla scarna, che portava al pascolo la vaccherella magra e stecchita, le rubava qualche erba, di cui la fame aveva insegnato che anche gli uomini potevano vivere. Questi spettacoli accrescevano la mestizia del frate, il quale camminava già col triste presentimento di andare a sentire qualche sciagura.

Padre Cristoforo. – Il padre Cristoforo da *** era un uomo più vicino ai sessanta che ai cinquant’anni. Il suo capo raso, salvo la piccola corona di capelli che vi girava intorno, s’alzava di tempo in tempo, con un movimento che lasciava trasparire un non so che d’altero e d’inquieto, e subito s’abbassava, per riflessione d’umiltà; la barba bianca e lunga, che gli copriva le guance e il mento, faceva ancor più risaltare le forme rilevate del volto; due occhi incavati, per lo più chinati a terra, sfolgoravano talvolta con vivacità repentina, come due cavalli bizzarri, condotti a mano da un cocchiere, col quale sanno per esperienza che non si può vincerla, ma che fanno di tempo in tempo qualche sgambetto, che scontano subito con una buona tirata di morso.

L’educazione di Lodovico. – Il padre Cristoforo non era stato sempre Cristoforo: il suo nome di battesimo era Lodovico. Era figliuolo di un mercante, che essendosi arricchito, aveva rinunziato al traffico, si era dato a vivere da signore, e aveva cercato ogni modo per far dimenticare che era stato mercante. Perciò aveva fatto educare il figlio nobilmente, dandogli maestri di lettere e d’esercizi cavallereschi.

Lodovico aveva contratto abitudini signorili, ma quando volle mischiarsi coi nobili della sua città, vide che, a voler essere della loro compagnia, gli conveniva star sempre al di sotto e ingozzarne una ogni momento. Ciò non s’accordava né con la sua educazione, né con la sua natura. S’allontanò da essi indispettito, ma, volendo pure in qualche modo competere con essi, si era dato a fare sfoggio di magnificenze, comprandosi così a contanti inimicizie, invidie e ridicolo.

Indole di Lodovico. – La sua indole, onesta insieme e violenta, gli faceva sentire un orrore spontaneo e sincero per le angherie, tanto più che le persone, che maggiormente ne commettevano, erano appunto coloro coi quali aveva ruggine. Così venne a costituirsi a poco a poco un protettore degli oppressi e un vendicatore dei tori. Ma non è da domandare se il povero Lodovico avesse nemici, impegni e pensieri. Oltre la guerra esterna, era tribolato continuamente da contrasti interni, perché a spuntarla in un impegno doveva anche lui adoperare raggiri e violenze, che la sua coscienza non poteva approvare. Doveva tenersi intorno un gran numero di bravacci, così che doveva vivere coi birboni per amore della giustizia. Tanto che più di una volta gli era saltata la fantasia di farsi frate. Ma questa, che sarebbe forse stata una fantasia per tutta la sua vita, divenne una risoluzione a causa d’un accidente, il più serio che gli fosse ancora capitato.

Incontro con un prepotente. – Andava un giorno per una strada della sua città, seguito da due bravi e da un tale Cristoforo, maestro di casa, molto a lui affezionato, quando vide spuntar da lontano un signore, seguito da quattro bravi, col quale non aveva mai parlato, ma che gli era cordiale nemico, e al quale rendeva pur di cuore il contraccambio. Tutti e due camminavano rasenti al muro, ma Lodovico lo strisciava col lato destro, e ciò, secondo consuetudine, gli dava il diritto di non staccarsi dal muro per dare il passo ad altri; l’altro pretendeva all’opposto che quel diritto competesse a lui, come a nobile, e che a Lodovico toccasse andare nel mezzo, e ciò in forza di un’altra consuetudine.

Quando si trovarono a viso a viso, il signor tale, squadrando Lodovico con cipiglio imperioso, pretese che gli cedesse la diritta, ma Lodovico gli rispose con egual arroganza. Dalle parole passarono ai fatti, e, sfoderate le spade, si avventarono l’uno contro l’altro, mentre i servitori si slanciavano alla difesa dei loro padroni. Il combattimento era disuguale, sia per il numero, sia perché Lodovico mirava piuttosto a scansare i colpi e a disarmare il nemico che ad ucciderlo, mentre questi voleva ad ogni costo la sua morte. Lodovico aveva già ricevuto una pugnalata al braccio sinistro da un bravo, e una sgraffiatura leggera in una guancia, e il nemico principale gli piombava addosso per finirlo, quando Cristoforo, vedendo il suo padrone all’estremo pericolo, andò col pugnale addosso al signore. Questi, rivolta tutta la sua ira contro di lui, lo passò con la spada. A quella vista Lodovico, come fuori di sé, cacciò la sua nel ventre del feritore, che cadde moribondo, quasi insieme col povero Cristoforo. I bravi, visto ch’era finita, si diedero alla fuga, e Lodovico si trovò solo, con quei due funesti compagni ai piedi, in mezzo ad una gran folla. Il fatto era accaduto vicino ad una chiesa di cappuccini, asilo allora impenetrabile alla giustizia. Lodovico, ferito, fu qui portato dalla folla, che lo raccomandava dicendo: «è un uomo dabbene che ha freddato un birbone superbo; l’ha fatto per sua difesa: c’è stato tirato per i capelli».

Lodovico decide di farsi frate. – Lodovico, che non aveva mai prima d’allora sparso sangue, benché l’omicidio fosse a quei tempi cosa molto comune, vedendo l’uomo morto per lui e l’uomo morto da lui, ricevette un’impressione nuova e invincibile.

Riflettendo ai casi suoi, sentì rinascere più che mai vivo e serio quel pensiero di farsi frate, che altre volte gli era passato per la mente: gli parve che Dio medesimo l’avesse messo sulla strada e datogli un segno del suo volere, facendolo capitare in un convento in quella congiuntura: e il partito fu preso.

La risoluzione di Lodovico veniva molto a proposito per i suoi ospiti, che per cagione sua erano in un bell’intrigo, perché la famiglia dell’ucciso, che era assai potente, voleva ad ogni costo nelle unghie l’uccisore, vivo o morto. Ora questo, vestendo l’abito da cappuccino, accomodava ogni cosa. Il fratello dell’ucciso impose come condizione che Lodovico partisse subito da quella città; e il padre guardiano, che aveva già deliberato che questo fosse fatto, disse che si farebbe, lasciando che l’altro credesse, se gli piaceva, essere questo un atto d’ubbidienza, e tutto fu concluso.

Così Lodovico a trent’anni si ravvolse nel sacco; e dovendo, secondo l’uso, lasciare il suo nome e prenderne un altro ne scelse uno che gli rammentasse in ogni momento ciò che doveva espiare, e si chiamò fra Cristoforo.

Padre Cristoforo chiede perdono alla famiglia dell’ucciso. – Appena compiuta la cerimonia della vestizione, il guardiano intimò a fra Cristoforo che sarebbe andato lontano a fare il noviziato, ed egli chiese per grazia, prima di partire, di poter chiedere perdono al fratello dell’ucciso.

Il gentiluomo pensò che, quanto più quella soddisfazione fosse solenne e clamorosa, tanto più accrescerebbe il suo credito presso tutta la parentela e presso il pubblico; e invitò in fretta tutti i parenti per ricevere una soddisfazione comune.

Il giorno dopo, a mezzogiorno, il palazzo brulicava di gente. Fra Cristoforo vide quell’apparecchio, ne indovinò il motivo e provò un leggero turbamento, ma pensò subito che come pubblico era stato lo scandalo, pubblica doveva essere la riparazione. Giunto davanti al fratello dell’ucciso, gli si pose in ginocchioni ai piedi, incrociò le mani al petto e chiese umilmente perdono. Quando egli tacque, s’alzò per tutta la sala un mormorio di pietà e di rispetto. Il gentiluomo, che stava in atto di degnazione forzata e d’ira compressa, turbato da quelle parole, lo costrinse ad alzarsi, e, trasportato da quella commozione generale, gli gettò le braccia la collo, e gli diede e ne ricevette il bacio di pace. Un «bravo! Bene!» scoppiò da tutte le parti della sala; tutti si mossero e si strinsero intorno al frate.

Il pane del perdono. – Vennero poi servitori con gran copia di rinfreschi, ma fra Cristoforo non volle che un semplice pane, come segno di carità e di perdono. Chiese quindi licenza, si liberò a fatica da tutti coloro che, trovandosi più vicini, gli baciavano il lembo dell’abito, il cordone, il cappuccio; e si trovò sulla strada, portato come in trionfo. Una folla di popolo lo accompagnò fino alla porta della città, da dove uscì per cominciare il suo viaggio ai piedi verso il luogo del suo noviziato.

In tal modo il fratello dell’ucciso e il parentado, che s’erano aspettati d’assaporare in quel giorno la trista gioia dell’orgoglio, si trovarono invece ripieni della gioia serena del perdono e della benevolenza.

Padre Cristoforo camminava, con una consolazione che non aveva mai più provata dopo quel giorno terribile. Fermatosi, all’ora della refezione, presso un benefattore, mangiò con una specie di voluttà pane del perdono; ma ne serbò un pezzo, come un ricordo perpetuo.

Vita claustrale di padre Cristoforo. – Da allora, adempiendo sempre con gran voglia e con gran cura gli uffici, che gli venivano ordinariamente assegnati, di predicare e di assistere i moribondi, non lasciava ma sfuggire l’occasione di esercitarne altri due, che s’era imposti da sé: accomodare differenze e proteggere oppressi. Se una poverella sconosciuta, nel triste caso di Lucia, avesse chiesto il suo aiuto, egli sarebbe corso immediatamente. Trattandosi poi di Lucia, accorse con tanta più sollecitudine, in quanto conosceva l’innocenza di lei e sentiva una indignazione santa per la turpe persecuzione della quale era divenuta l’oggetto.

Ma mentre abbiamo raccontato i fatti di padre Cristoforo, egli è arrivato e s’è affacciato all’uscio; e le donne, lasciando il manico dell’aspo che facevan girare, si sono alzate dicendo a una voce: «Oh padre Cristoforo! Sia benedetto!».



CAPITOLO V

Agnese narra a padre Cristoforo l’accaduto. - Padre Cristoforo si fermò ritto sulla soglia, e, appena ebbe data un’occhiata alle donne, dovette accorgersi che i suoi presentimenti non erano falsi. Lucia scoppiò in pianto, Agnese cominciò a fare le scuse d’aver osato disturbarlo, ma il frate, messosi a sedere sur un banchetto a tre piedi, troncò i complimenti, chiedendo alle donne di raccontargli ogni cosa.

Mentre Agnese faceva alla meglio la sua dolorosa relazione, il frate diventava di mille colori, e ora alzava gli occhi al cielo, ora batteva i piedi. Terminata la storia, si coprì il volto con le mani ed esclamò: «O Dio benedetto! Fino a quando…!». Ma, senza compiere la frase, si rivolse di nuovo alle donne, dicendo: «Dio vi ha visitate. Povera Lucia!».

Padre Cristoforo decide di recarsi da don Rodrigo. – Dopo aver contrappesato il pro e il contro di questo o di quel partito, il migliore gli parve d’affrontare don Rodrigo stesso, tentare di smuoverlo dal suo infame proposito, con le preghiere, coi terrori dell’altra vita, o anche di questa, se fosse possibile.

Sopraggiunse intanto Renzo, che, vedendo padre Cristoforo, si lasciò sfuggire di aver compiuto dei tentativi infruttuosi presso i suoi amici per averli alleati nella vendetta; ma il frate, afferrato il braccio del giovane, lo esortò a lasciarsi guidare da lui e a non provocare nessuno. Poi, dopo aver promesso che sarebbe ritornato la sera, o al più tardi il mattino seguente, troncò tutti i ringraziamenti e le benedizioni, e partì. S'avviò al convento, arrivò a tempo per andare in coro a cantare sesta, desinò, e si mise subito in cammino verso il covile della fiera, che voleva provarsi di ammansire.

Il palazzotto di don Rodrigo. – Il palazzotto di don Rodrigo sorgeva isolato, a somiglianza di una bicocca, sulla cima di un poggio, più in su del paesello di Renzo e Lucia, discosto da questo forse tre miglia, e quattro dal convento. Ai piedi del poggio, dalla parte che guarda a mezzogiorno e verso il lago, giaceva un mucchietto di casupole, abitate da contadini di don Rodrigo, ed era come la capitale del suo piccolo regno.

Padre Cristoforo attraversò il villaggio, salì per una viuzza a chiocciola, e pervenne su una piccola spianata, davanti al palazzotto. La porta era chiusa, segno che il padrone stava desinando e non voleva essere disturbato. Si sarebbe potuto credere che fosse una casa abbandonata, se quattro creature, due vive e due morte, collocate di fuori, non avessero dato indizio che era abitata. Due grandi avvoltoi, con l’ali spalancate e coi teschi penzoloni, erano inchiodati sur un battente del portone; e due bravi, ciascuno sur una delle panche poste a destra e a sinistra, facevano la guardia, aspettando di essere chiamati a godere gli avanzi della tavola. Il padre si fermò ritto, in atto di chi si dispone ad aspettare; ma uno dei bravi lo invitò ad entrare, dando due picchi col martello. Si udì dal di dentro gli urli e le strida di mastini e di cagnolini; e, pochi momenti dopo, giunse un vecchio servitore, che, guardando il padre con una cert’aria di meraviglia e di rispetto, lo condusse fino all’uscio della sala del convito.

Padre Cristoforo nella sala del convito. – Padre Cristoforo stava contrastando col servitore per ottenere di esser lasciato in qualche canto della casa, finchè il pranzo fosse terminato, quando l’uscio si aprì, e un certo conte Attilio, cugino di don Rodrigo, veduta una testa rasa e una tonaca, gridò: «Ehi! Ehi! Non ci scappi, padre riverito: avanti, avanti». Don Rodrigo, senza indovinare precisamente il soggetto di quella visita, pure, per non so quale presentimento, ne avrebbe fatto a meno; ma poiché quello spensierato di Attilio aveva fatto quella gran chiamata, non conveniva a lui tirarsi indietro, e disse: «Venga, padre, venga». Il padre s’avanzò, inchinandosi al padrone, e rispondendo a due mani al saluto dei commensali.

I commensali. – Don Rodrigo sedeva a capo tavola. Alla sua destra era il conte Attilio, venuto da Milano a villeggiare per alcuni giorni; a sinistra, a un altro lato della tavola, stava il podestà del paese, quello stesso a cui in teoria sarebbe toccato far giustizia a Renzo e far stare a dovere don Rodrigo; a destra, in faccia al podestà, in atto di un rispetto il più puro, il più sviscerato, sedeva il dottor Azzecca-garbugli, in cappa nera e col naso più rubicondo del solito; in faccia a don Rodrigo e al conte Attilio vi erano due invitati oscuri, che non facevano altro che mangiare, chinare il capo, sorridere e approvare ogni cosa dicesse un commensale e a cui un altro non contraddicesse.

Il convito. – Padre Cristoforo si scusò con don Rodrigo di essere venuto in un’ora poco opportuna, e gli soggiunse all’orecchio, con voce più sommessa, di volergli parlare da solo a solo, con suo comodo, per un affare d’importanza. Don Rodrigo lo fece sedere, e, benché il padre si schermisse, gli fece portare da bere, perché non fosse mai vero che un cappuccino tornasse via da quella casa senza aver gustato del suo vino, o un creditore insolente senza aver assaggiato la legna dei suoi boschi.

Padre Cristoforo dovette in tal modo assistere alla continuazione del pranzo, fra discussioni di cavalleria e di politica, che poco potevano interessarlo.

Discussione su un problema di cavalleria. - Il conte Attilio sosteneva, con sprezzante arroganza, che un messo, il quale ardisca di porre in mano a un cavaliere una sfida, senza avergliene chiesta licenza, è un temerario, violabile, violabilissimo, bastonabile, bastonabilissimo. Il podestà, a sua volta, sosteneva, con dottrinaria cocciutaggine, che ogni passeggero è di sua natura inviolabile, per diritto delle genti, iure gentium, come dice anche il proverbio: ambasciator non porta pena.

Don Rodrigo, che non avrebbe voluto che la questione andasse troppo avanti, propose, non senza ironia, che fosse rimessa a padre Cristoforo, il quale non era venuto al mondo col cappuccio in capo e aveva anch’egli, conosciuto il mondo. Il padre, dopo essersi invano schermito, enunciò il suo debole parere, che non vi dovrebbero essere né sfide, né bastonate, suscitando in tal modo le meraviglie e le proteste di tutti i commensali.

Discussione sulla guerra. – Ma don Rodrigo, volendo troncare quella questione, portò il discorso sulla guerra di successione per il ducato di Mantova, che, alla morte di Vincenzo Gonzaga, era passata al duca di Nevers, suo parente più prossimo. Luigi XIII e il cardinale di Richelieu sostenevano questo principe, naturalizzato francese; mentre Filippo IV e il suo ministro conte d’Olivares, comunemente chiamato il conte duca, lo contrastavano; e poiché quel ducato era feudo dell’Impero, ambedue le parti si adoperavano presso l’imperatore Ferdinando II perché si risolvesse per l’una o per l’altra di esse. Anche qui il conte Attilio prese a contraddire il podestà, il quale, allegando la sua amicizia col signor castellano (=capitano) spagnolo, difendeva la tesi di Spagna e levava alle stelle il conte d’Olivares. Don Rodrigo intervenne di nuovo con un’occhiata presso il cugino, per fargli intendere che, per amor suo, cessasse di contraddire. Il conte tacque, e il podestà, come un bastimento disimbrogliato da una secca, continuò a vele gonfie il corso della sua eloquenza. E chissà quando avrebbe preso terra, se don Rodrigo, che vedeva fremere il cugino, non avesse fatto portare un certo fiasco, per fare un brindisi al conte duca. Anche padre Cristoforo fu costretto ad associarsi al brindisi, mentre il dottor Azzecca-garbugli pronunciò con enfasi un elogio dei vini e dei pranzi dell’Illustrissimo signor don Rodrigo, dal cui palazzo la carestia era bandita e confinata in perpetuo.

Accenno alla carestia. – La parola carestia, che il dottore aveva buttato fuori a caso, rivolse in un punto tutte le menti su quel triste soggetto. I convitati furono tutti d’accordo nell’urlare che carestia non c’era e che era tutta speculazione degli incettatori e dei fornai. Il disparere era solo sui rimedi da adottare: il podestà voleva dei buoni processi; il conte Attilio, seguito dagli altri, gridava che bisognava prendere coloro che, per voce pubblica, erano conosciuti come i più ricchi e i più cani, e impiccarli.

Don Rodrigo intanto, che vedeva il padre Cristoforo sempre zitto e fermo, senza segno d’impazienza o di fretta, avrebbe fatto volentieri a meno di quel colloquio; ma congedare un cappuccino senza avergli dato udienza, non era secondo la regola della sua politica. Poiché la seccatura non si poteva evitare, si risolvette di affrontrla subito. S’alzò da tavola, e con lui tutta la rubiconda brigata, senza interrompere il chiasso. Chiesta poi licenza agli ospiti, si avvicinò in atto contegnoso al frate, che si era subito alzato con gli altri e gli disse: «Eccomi ai suoi comandi!»; e lo condusse in un’altra sala.
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