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PROMESSI SPOSI [CAP. VI-IX]

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Messaggio Da raffaele43 Mer Set 28, 2011 3:45 pm

CAPITOLO VI

Il colloquio tra padre Cristoforo e don Rodrigo. – Don Rodrigo, piantatosi in piedi nel mezzo della sala, chiese a padre Cristoforo in che cosa potesse servirlo; ma il tono, con cui furono proferite le parole, voleva dir chiaramente, bada a chi sei davanti, pesa le parole e sbrigati.

Fu appunto questo tono, che diede coraggio al nostro padre Cristoforo e gli fece venir sulle labbra più parole del necessario. Temperò tuttavia le frasi, che gli si erano presentate alla mente, e disse con guardinga umiltà che era venuto a proporre un atto di giustizia, poiché certi uomini di mal affare avevano messo innanzi il nome di don Rodrigo per far paura a un povero curato e soverchiare due innocenti. Egli avrebbe potuto, con una parola, confondere coloro, restituire al diritto la sua forza, e sollevare quelli a cui era stata fatta una così crudele violenza….

Don Rodrigo lo interruppe con arroganza, ma padre Cristoforo, appellandosi a quel Dio, al cui cospetto dobbiamo tutti comparire, lo esortò a non ostinarsi a negare una giustizia così facile, per non doversi un giorno pentire di non aver ascoltato la parola di un ministro di Dio. Allora don Rodrigo ribattè con insolenza che aveva capito che una fanciulla gli stava molto a cuore, e poiché il padre credeva che egli potesse molto per lei, lo consigliò di metterla sotto la sua protezione.

A questa proposta l’indignazione del frate, trattenuta a stento fino allora, traboccò; e piantando in faccia a don Rodrigo due occhi infiammati, gli rispose fieramente che quella innocente era sotto la protezione di Dio, e che aveva compassione di quella casa, sulla quale era sospesa la maledizione. «Verrà un giorno…».

Don Rodrigo, che era rimasto fin allora tra la rabbia e la rabbia meraviglia, non trovando parole, quando sentì intonare quella predizione s’aggiunse in lui alla rabbia un lontano e misterioso spavento. Afferrò rapidamente per aria quella mano minacciosa, e, alzando la voce per troncare quella dell’infausto profeta, gridò: «Escimi di tra i piedi, villano temerario, poltrone incappucciato». Così dicendo, additò, con un gesto imperioso, un uscio in faccia a quello per cui erano entrati; e il padre Cristoforo chinò il capo e se ne andò, lasciando don Rodrigo a misurare, a passi infuriati, il campo di battaglia.

Il vecchio servitore. – Quando il frate ebbe chiuso l’uscio dietro a sé, vide nell’altra stanza, in cui entrava, un uomo ritirarsi pian piano, strisciando lungo il muro, come per non essere veduto dalla stanza del colloquio; e riconobbe il vecchio servitore, che era venuto a riceverlo alla porta di strada.

Costui era in quella casa forse da quarant’anni, cioè prima che nascesse don Rodrigo, poiché vi era entrato al servizio del padre, il quale era stato tutt’altra cosa. Morto lui, il nuovo padrone, dando lo sfratto a tutta la famiglia, aveva trattenuta quel servitore, sia perché già vecchia, sia perché, sebbene di massime e di costume diversi, aveva un’alta opinione della dignità della casa e una gran pratica del cerimoniale.

Il padre Cristoforo, passando, lo salutò; il vecchio gli si accostò misteriosamente, mise un dito sulla bocca, e, fatto cenno di seguirlo in un andito buio, gli disse che aveva sentito tutto, che sapeva molte cose, e che si sarebbe recato l’indomani al convento per riferirgli tutto ciò che avesse scoperto.

Uscito fuori, e voltate le spalle a quella casaccia, padre Cristoforo respirò più liberamente, sebbene ancor tutto infuocato in volto per quello che aveva sentito e per quello che aveva detto. Ma quella così inaspettata esibizione del vecchio gli parve un filo che la Provvidenza gli mettesse nelle mani in quella casa medesima, senza che egli avesse sognato neppure di cercarlo. Allora, rimanendo ben poco del giorno, affrettò il passo, per poter portare un avviso, qual si fosse, ai suoi protetti, e arrivare al convento prima di notte, che era una delle leggi più precise e più severamente mantenute dal codice cappuccinesco.

La proposta di Agnese. – Intanto nella casetta di Lucia, dopo la partenza del frate, Agnese aveva maturato ed esposto un suo progetto. Essa sapeva che, per fare un matrimonio, ci vuole bensì il curato, ma non è necessario che voglia, basta che ci sia. Occorrono due testimoni; si va dal curato, in modo da chiapparlo all’improvviso, che non abbia tempo di scappare; l’uomo dice: signor curato, questo è mio marito; se il curato sente, sei testimoni sentono, il matrimonio è bell’e fatto.

Renzo accettò subito la proposta; ma Lucia, sentendo che non bisognava parlarne a padre Cristoforo, perché «i religiosi dicono che veramente è cosa che non istà bene», non ne fu molto convinta.

Renzo in cerca di testimoni. - Renzo uscì in fretta per procurarsi i due testimoni. Le tribolazioni aguzzano il cervello, e il giovane, in questo caso, ne aveva immaginata una, da fare onore ad un giureconsulto. Andò alla casetta di un certo Tonio, che era lì poco distante, e lo trovò in cucina, che dimenava, col matterello ricurvo, una piccola polenta bigia, di grano saraceno. La madre, un fratello, la moglie, erano a tavola; e tre o quattro ragazzetti, ritti accanto al babbo, stavano aspettando, con gli occhi fissi al paiolo che venisse il momento di scodellare. Ma la mole della polenta era in ragione dell’annata, e non del numero e della buona voglia dei commensali. Renzo invitò Tonio ad andare a mangiare all’osteria, e la proposta fu accettata con entusiasmo da lui e da tutti i familiari, i quali non videro mal volentieri che si sottraesse alla polenta un concorrente, e il più formidabile.

Giunti all’osteria del villaggio, e fatto portare quel poco che si trovava e un boccale di vino, Renzo propose a Tonio di pagargli un debito di venticinque lire, che egli aveva col curato per l’affitto di un campo, e che il curato gli ricordava tutte le volte e che lo vedeva; e Tonio, a sua volta, lieto di pagare il debito e di riavere la collana d’oro della moglie, che aveva barattata con tanta polenta, s’impegnò di venir a far da testimonio, portando con sé quel sempliciotto di suo fratello Gervaso.

L’opposizione di Lucia. – Usciti dall’osteria, Tonio s’avviò verso casa, studiando la fandonia che avrebbe raccontato alle donne, e Renzo ritornò da Agnese e da Lucia per rendere loro conto dei concerti presi.

Agnese s’incaricò di pensare a Perpetua, in modo da allontanarla dalla casa del curato; ma Lucia non si lasciava smuovere, perché non voleva sentir parlare di sotterfugi, di bugie, di finzioni.

Mentre la disputa continuava, e non pareva vicina a finire, si sentì un calpestio affrettato di sandali e un rumore di tonaca sbattuta. Agnese ebbe appena il tempo di sussurrare all’orecchio di Lucia di non parlare del disegno da le proposto, che comparve padre Cristoforo.

CAPITOLO VII

Padre Cristoforo ritorna alla casa di Lucia. – Padre Cristoforo giunse alla casa di Lucia, portando la triste notizia che non c’era nulla da sperare da quell’uomo. Le donne abbassarono il capo, ma nell’animo di Renzo l’ira prevalse sull’abbattimento, tanto più che, in quel momento, egli era esacerbato dalle ripulse di Lucia. Il frate tentò di calmarlo, raccomandando la fiducia in Dio; poi, rivolgesi a tutti, disse che sperava di aver in mano un filo per aiutarli: per questo motivo il giorno dopo non avrebbe potuto muoversi dal convento, ed essi avrebbero dovuto inviare da lui una persona fidata per sapere ciò che occorresse fare. Detto questo, uscì in fretta, correndo quasi a saltelloni giù per la viottola storta e sassosa, perché, se forre arrivato tardi al convento, avrebbe corso il rischio di buscarsi una penitenza, che gli avrebbe impedito il giorno dopo di trovarsi pronto a ciò che poteva richiedere il bisogno dei suoi protetti.

Lucia acconsente al matrimonio per sorpresa. – Renzo, rimasto solo con le donne, uscì allora in aperte minacce di uccidere don Rodrigo. Lucia ne fu atterrita, e, per calmare l’ira del giovane, si affrettò a promettere che sarebbe andata la sera dopo dal curato per fare il matrimonio clandestino; né – osserva il Manzoni – si può dire se essa fosse, in tutto e per tutto, malcontenta di essere stata spinta ad acconsentire.

Era intanto sopraggiunta la notte, e Renzo dovette congedarsi, poiché alle donne non pareva cosa conveniente che egli si trattenesse più a lungo a quell’ora. Ma l’indomani si fece vedere di buon’ora e concertò con Agnese la grande operazione della sera, proponendo e sciogliendo a vicenda le eventuali difficoltà.

Agnese manda Menico da padre Cristoforo. – Agnese andò poi a una casa vicina per cercare Menico, un ragazzetto di circa dodici anni, che, per via di cugini e di cognati, veniva a essere un po’ suo nipote. Lo chiese ai parenti, come prestito, per tutto quel giorno, gli diede la colazione, e lo mandò al convento, da padre Cristoforo, facendogli molte raccomandazioni e promettendogli in premio alcune monete.

I falsi mendicanti. – Nel rimanente di quella lunga mattinata si videro certe novità, che misero un poco in sospetto l’animo già conturbato delle donne. Prima fu un mendico, che aveva un non so che di oscuro e di sinistro nelle sembianze, il quale entrò a chiedere la carità, dando in qua e in là certe occhiate da spione, e si trattenne facendo molte domande, alle quali Agnese si affrettò a rispondere sempre il contrario di quello che era. Quando andò via, finse di sbagliare l’uscio, entrò in quello che metteva alla scala, e diede anche lì in fretta un’occhiata. Dopo costui continuarono a farsi vedere di tempo in tempo altre strane figure. Uno entrava col pretesto di farsi insegnare la strada; altri, passando davanti all’uscio, rallentavano il passo, come chi vuol vedere senza dare sospetto. Finalmente, verso mezzogiorno, quella fastidiosa processione finì; ma nelle due donne rimase una non so quale inquietudine, che levò loro, e principalmente a Lucia, una gran parte del coraggio, che avevano messo in serbo per la sera.

Don Rodrigo medita il rapimento di Lucia. – Per sapere chi erano questi ronzatori misteriosi, bisogna ritrovare don Rodrigo, che abbiamo lasciato solo, in una sala del suo palazzotto, al partire del padre Cristoforo.

Don Rodrigo, come abbiamo detto, misurava innanzi e indietro, a passi lunghi, quella sala, dalle pareti della quale pendevano ritratti di famiglia, di varie generazioni. Quando si trovava col viso a una parete, e voltava, si vedeva in faccia un suo antenato guerriero, terrore dei nemici e dei suoi soldati; quando gli era arrivato sotto, e voltava, vedeva in faccia un altro antenato, magistrato, terrore dei litiganti e degli avvocati; di qua una matrona, terrore delle sue cameriere, di là un abate, terrore dei suoi monaci: tutta gente, insomma, che aveva fatto terrore, e lo spirava ancora dalle tele.

Alla presenza di tali memorie, don Rodrigo non poteva darsi pace che un frate avesse osato venirgli addosso. Formava un disegno di vendetta, l’abbandonava, pensava come soddisfare insieme alla passione e a ciò che chiamava onore; e talvolta, sentendosi fischiare ancora negli orecchi quell’esordio di profezia, si sentiva venire, come si dice, i bordoni, e stava quasi per deporre il pensiero delle due soddisfazioni.

Finalmente, per far qualche cosa, si fece portar spada, cappa, cappello, ordinò sei persone di seguito per la passeggiata, e uscì più burbero, più superbioso, più accigliato del solito, dirigendosi verso Lecco. Per passare un poco la mattana, e per contrapporre all’immagine del frate immagini del tutto diverse, entrò quel giorno in una casa, dove andava per il solito molta gente, e dove fu ricevuto con quella rispettosa cordialità, che è riservata agli uomini che si fanno molto amare o molto temere; e a notte già fatta tornò al suo palazzotto.

La mattina seguente, l’apprensione che quel verrà un giorno gli aveva messo in corpo, era svanita del tutto coi sogni della notte; e gli rimaneva soltanto la rabbia, esacerbata anche dalla vergogna di quella debolezza passeggera.

Appena alzato, fece chiamare il Griso, il capo dei bravi, il fidatissimo del padrone, quello a cui si imponevano le imprese più rischiose e più inique. Dopo aver ammazzato uno, di giorno, in piazza, era andato ad implorare la protezione di don Rodrigo; e questo, vestendolo della sua livrea, l’aveva messo al coperto da ogni ricerca della giustizia. Don Rodrigo gli impose di rapire entro l’indomani Lucia, e di portargliela al palazzo, ma senza farle nulla di male. Il Griso promise che sarebbe fatto, e insieme concertarono la maniera di condurre a fine l’impresa, d’imporre silenzio alla povera Agnese, d’incutere a Renzo tale spavento, da fargli passare il dolore e il pensiero di ricorrere alla giustizia, e tutte le altre bricconerie necessarie alla riuscita della bricconeria principale.

La mattina fu spesa in giri per riconoscere il paese. Quel falso pezzente, che s’era inoltrato a quel modo nella casetta, non era altro che il Griso, il quale veniva per levarne a occhio la pianta; i falsi viandanti erano i suoi ribaldi. Tornati poi al palazzotto, il Griso rese conto di quanto era stato fatto, fissò definitivamente il disegno dell’impresa, assegnò le parti e diede istruzioni.

Il vecchio servitore avverte padre Cristoforo. – Tutto ciò non si poté fare, senza che quel vecchio servitore, che stava a occhi aperti, non s’accorgesse che si macchinava qualche gran cosa. Quando riuscì a venire in chiaro di ciò che si doveva eseguire quella notte, il povero vecchio, benché capisse che rischioso gioco giocava, si avviò in fretta al convento, per dare al padre Cristoforo l’avviso promesso.

L’imboscata. – Intanto una piccola avanguardia di bravi era andata ad imboscarsi in un casolare diroccato, fuori del paese, poco distante dalla casetta di Lucia. Poco dopo altri bravi discesero alla spicciolata, per non parere una compagnia; venne infine il Griso, e non rimase indietro che una bussola (cioè una specie di portantina), che doveva essere portata al casolare a sera inoltrata. Radunati che furono in quel luogo, il Griso spedì tre dei suoi uomini all’osteria del paesetto, per spiare se qualcosa ci fosse da spiare; mentre egli, col grosso della truppa, rimase nell’agguato ad aspettare.

Renzo con Tonio e Gervaso all’osteria. – Il povero vecchio servitore trottava ancora, i tre esploratori arrivavano al loro posto e il sole cadeva, quando Renzo entrò dalle donne per avvertirle che sarebbe andato all’osteria con Tonio e Gervaso a mangiare un boccone e che all’avemaria sarebbe venuto a prenderle.

Quando Renzo e i due compagni giunsero all’osteria, vi trovarono uno degli uomini del Griso, già piantato in sentinella, che ingombrava il vano della porta come una cariatide; tanto che il giovane, intento a schivare ogni questione, dovette passare per isbieco, col fianco innanzi, e i due compagni dovettero fare la stessa evoluzione. Entrati, videro gli altri due bravacci, che giocavano alla morra, con un gran fiasco che era tra loro; e uno d’essi, tenendo una mano in aria, squadrò Renzo da capo a piedi, e diede un’occhiata al compagno e a quello dell’uscio, che rispose con un cenno del capo. Renzo insospettito e incerto, domandò all’oste chi fossero quei forestieri, ma l’oste non seppe o non volle dare una risposta precisa, limitandosi a dire che erano dei galantuomini. A sua volta il bravo, che aveva squadrato il nostro giovane, si accostò all’oste in cucina, e gli domandò informazioni su Renzo e i suoi compagni, e l’oste, in questo caso, fu molto più esplicito.

La cena non fu molto allegra. I due convitati avrebbero voluto godersela con tutto loro comodo; ma Renzo, infastidito per lo strano contegno di quegli sconosciuti, non vedeva l’ora di andarsene. Appena uscito, s’accorse che i due, che aveva lasciati all’osteria, lo seguivano. Si fermò allora coi suoi compagni, come se dicesse: vediamo cosa vogliono da me costoro; ma i due, quando si accorsero di essere osservati, si parlarono sottovoce e tornarono indietro.

Renzo, Tonio e Gervaso alla casetta di Lucia. – Cominciava intanto quel brulichio, quel ronzio, che si sente in un villaggio, sulla sera, e che, dopo pochi momenti, dà luogo alla quiete solenne della notte. Quando Renzo vide che i due indiscreti si erano ritirati, continuò la sua strada nelle tenebre crescenti, dando sottovoce ora un avvertimento, ora un altro ai due fratelli. Arrivarono alla casetta di Lucia che era già notte.

Al picchiare sommesso di Renzo, Lucia fu assalita da tanto terrore, che avrebbe voluto in quel momento soffrire ogni cosa, piuttosto che eseguire quella risoluzione; ma quando Renzo si fu fatto vedere ed ebbe detto: «Son qui, andiamo», Lucia non ebbe tempo né forza di fare difficoltà, prese tremando un braccio della madre, un braccio del promesso sposo, e si mosse con la brigata avventuriera.

Verso la casa di don Abbondio. – Zitti, zitti, nelle tenebre, evitando di attraversare il paese per non essere visti, si diressero, tra gli orti e i campi, verso la casa di don Abbondio. Qui giunti, si divisero. I due promessi rimasero nascosti dietro l’angolo della casa; Agnese rimase con loro, ma un po’ più innanzi, per accorrere in tempo a fermare Perpetua; Tonio e Gervaso picchiarono alla porta. Si affacciò alla finestra Perpetua, e Tonio le disse che aveva appena riscosso dei denari e che era venuto a saldare il suo debito, prima di mutar parere. Perpetua si diede a protestare che quella non era ora da cristiani, ma poi corse ad avvertire il curato.

A questo punto Agnese, dopo aver fatto coraggio a Lucia, si riunì ai due fratelli davanti all’uscio, e si mise a ciarlare con Tonio, in modo che Perpetua, venendo ad aprire, dovesse credere che si fosse abbattuta lì a caso e che Tonio l’avesse trattenuta un momento

CAPITOLO VIII

Carneade. - «Carneade! Chi era costui?», ruminava tra sé don Abbondio, seduto sul seggiolone, con un libricciolo aperto davanti, quanto Perpetua entrò a portargli l’ambasciata. Bisogna sapere che don Abbondio si dilettava di leggere un pochino ogni giorno; e un curato suo vicino, che aveva un po’ di libreria, gli prestava un libro dopo l’altro, il primo che gli veniva alle mani. Quello su cui meditava in quel momento don Abbondio era un panegirico in onore di San Carlo, in cui il santo era paragonato, per l’amore dello studio, ad Archimede, e fin qui don Abbondio non trovava inciampo; ma, dopo Archimede, l’oratore chiamava a paragone anche Carneade, e lì il lettore era rimasto arenato. Proprio in quel momento entrò Perpetua ad annunziare la visita di Tonio. Don Abbondio si meravigliò che l’ora indiscreta, ma persuaso che, se non prendeva quel momento per riscuotere il credito, chissà quando se ne sarebbe presentato un altro, disse di farlo entrare.

Agnese trattiene Perpetua. – Perpetua scese ad aprire, ma, mentre Tonio entrava, venne avanti Agnese e salutò Perpetua per nome. Poi disse che veniva da un paesello vicino, dove aveva trovato una donna, la quale si ostinava ad affermare che Perpetua non si era mai maritata con Beppe Suolavecchia e Anselmo Lunghigna perché non l’avevano voluta, mentre era tutto il contrario. Questo argomento, che toccava un debole di Perpetua, suscitò naturalmente le ire e le esclamazioni della donna; e poiché di fronte alla casa di don Abbondio si apriva, tra due casupole, una stradetta che, finite quelle, voltava in un campo, Agnese vi si avviò come se volesse parlare più liberamente. Quando furono in luogo, dove non si poteva più vedere ciò che accadesse dinanzi alla casa di don Abbondio, Agnese tossì forte. Era il segnale. Renzo fece coraggio a Lucia con una stretta di braccio, e tutt’e due in punta di piedi, zitti, zitti, entrarono nell’andito, dove erano i due fratelli ad aspettarli. Poi tutti salirono le scale, e, giunti sul pianerottolo, i due fratelli entrarono nella stanza del curato.

Renzo e Lucia alla presenza di don Abbondio. – Don Abbondio, dopo aver rimproverato Tonio per l’ora, prese le venticinque berlinghe nuove, restituì la collana, che aveva nell’armadio e si accinse a scrivere la ricevuta. Frattanto i due fratelli si piantarono ritti davanti al tavolino, in modo d’impedire allo scrivente la vista dell’uscio; e, come per ozio, andavano stropicciando coi piedi il pavimento per far segno ai fidanzati di entrare, e per confondere nello stesso tempo il rumore delle loro pedate. Renzo e Lucia entrarono pian piano e si nascosero dietro ai due fratelli. Quando don Abbondio, finito di scrivere, porse la ricevuta a Tonio, questi, allungando la mano per prendere la carta, si ritirò da una parte; Gervaso, a un suo cenno, dall’altra; e nel mezzo, come al dividersi di una scena, apparvero Renzo e Lucia. Ma Renzo ebbe appena il tempo di dire: «Signor curato, in presenza di questi testimoni, questa è mia moglie», e Lucia ebbe appena il tempo di proferire: «E questo…», che don Abbondio, ghermito il tappeto del tavolino, lo buttò sulla testa di Lucia, per impedirle di pronunziare intera la formula.

Le grida di don Abbondio. – Poi, gettata a terra la lucerna, che teneva nell’altra mano, si mise a gridare a squarciagola: «Perpetua! Perpetua! Tradimento! aiuto!», e, trovato a tastoni l’uscio che metteva a una stanza più interna, si rinchiuse in quella, continuando a chiamare. Intanto nell’altra stanza tutto era confusione. Renzo picchiava all’uscio, gridando: «Apra, apra; non faccia schiamazzo»; Lucia chiamava Renzo con voce fioca; Tonio, carponi, andava spazzando con le mani il pavimento, per vedere di raccapezzare la sua ricevuta; Gervaso gridava e saltellava, cercando l’uscio della scala. Don Abbondio, vedendo che il nemico non dava segno di ritirarsi, aprì una finestra che dava sulla piazza della chiesa e si mise a gridare: «Aiuto! aiuto!».

Il sacrestano suona a martello. – Ambrogio, il sacrestano, che dormiva in un bugigattolo contiguo alla chiesa, si svegliò a quel grido disordinato, mise fuori la testa, e, appreso da don Abbondio che aveva gente in casa, trovò subito un espediente per dare un aiuto al curato senza mettersi nel tafferuglio. Diede di piglio alle brache, che teneva sul letto; se le cacciò sotto il braccio, come un cappello di gala; e, precipitandosi nel campanile, afferrò la corda della campana più grossa, suonando a martello.

I bravi nella casa di Lucia. – Ma quei rintocchi, ancor prima di ridestare il paese, giunsero agli orecchi di altre persone, che vegliavano non lontano, ritte e vestite: i bravi in un luogo, Agnese e Perpetua in un altro.

Appena quei tre, che abbiamo lasciato all’osteria, si accorsero che nel paese non c’era più anima viva, si avviarono al casolare e fecero la loro relazione al Griso. Questi, indossato un abito da pellegrino, s’incamminò con tutta la sua truppa verso la casetta di Lucia. Visto che tutto era deserto e tranquillo, diede ordine ai due bravi di scalare il muro, che chiudeva il cortiletto, e di nascondersi in un angolo, dietro un folto fico. Ciò fatto, picchiò pian piano, con l’intenzione di dirsi un pellegrino smarrito, che chiedeva ricovero. Nessuno rispose: ripicchiò un po’ più forte; nemmeno uno zitto. Allora fece calare nel cortile un terzo malandrino, con l’ordine di sconficcare adagio il paletto, per aver libero l’ingresso e la ritirata. Entrò poi con gli altri bravi, che mandò a nascondersi accanto ai primi; accostò adagio adagio l’uscio di strada, ponendo due sentinelle di dentro; e picchiò all’uscio del piano terreno. Anche qui nessuno rispose. Sconficcò pian piano anche all’uscio, entrò nella stanza con quei due che aveva lasciato dietro il fico, accese un suo lanternino, entrò in un’altra stanza più interna, ma non trovò nessuno. Andò allora all’uscio di scala, si fece venir dietro il Grignapoco, che era un bravo del contrado di Bergamo e che col suo linguaggio avrebbe dovuto far credere che la spedizione veniva da quella parte, e salì il piano superiore. Spinse mollemente l’uscio che metteva alla prima stanza, vide un letto, ma vuoto; andò nell’altra stanza, ma trovò la stessa cosa.

Il ritorno di Menico. – Mentre costoro erano in tali faccende, i due, che facevano la guardia all’uscio di strada, sentirono un calpestìo di passi frettolosi, che si fermarono appunto all’uscio. Era Menico, che veniva di corsa, mandato da padre Cristoforo ad avvertire le due donne che scappassero subito di casa e si rifugiassero al convento. Appena egli mise il piede dentro, si sentì acchiappare per le braccia, mentre due voci gli dicevano in tono minaccioso: «Zitto! o sei morto». Il ragazzetto cacciò un urlo, ma tutto a un tratto, invece di lui, e con ben altro tono, si fece sentire quel primo tocco di campana, a cui seguì una tempesta di rintocchi in fila. I due furfanti, ai quali parve di sentire in quei tocchi il loro nome, cognome e soprannome, lasciarono andare le braccia a Menico, che si recò a gambe levate alla volta del campanile.

Agli altri furfanti, che frugavano la casa, quei terribili tocchi fecero la stessa impressione. Ci volle tutta la superiorità del Griso a tenerli insieme, tanto che fosse ritirata e non fuga. Dopo averli brevemente biasimati per la loro paura, lasciò la casa, che era in fondo al villaggio, e tutti gli andarono dietro in buon ordine.

Perpetua si libera da Agnese. – Agnese aveva cercato di tener a bada Perpetua il più che fosse possibile; e, fino a un certo punto, la cosa era andata bene. Ma tutt’a un tratto Perpetua si era ricordata dell’uscio rimasto aperto e aveva voluto tornare indietro. Agnese, per non farle nascere qualche sospetto, aveva dovuto seguirla, cercando però di trattenerla, ogni volta che la vedesse riscaldata ben bene nel racconto. Così, a corserelle e fermatine, erano giunte poco distante dalla casa del curato, quando, tutt’a un tratto si sentì, nell’ampio silenzio della notte, quel primo sgangherato grido di don Abbondio: «Aiuto! aiuto!». Perpetua prese la rincorsa, invano trattenuta da Agnese, quando più lontano, più acuto, più istantaneo, si sentì l’urlo di Menico, e, poco dopo, scoccò la campana. Perpetua, mentre spalancava l’uscio, si vide comparire sulla soglia Tonio, Gervaso, Renzo e Lucia, che correvano a mettersi in salvo, e, non ottenendo risposta alle sue domande di sorpresa, corse, come poteva al buio, verso la scala. Agnese, a sua volta, si trovò di fronte i due sposi, rimasti promessi, e tutti, prima che la gente accorresse, si avviarono affannati verso casa. Ma ecco arrivare Menico di corsa, che, ancor tutto tremante, gridò loro che vi era il diavolo in casa e che padre Cristoforo li voleva subito al convento. Così tutti e quattro, attraverso i campi, si incamminarono in fretta verso Pescarenico.

Il popolo in piazza. – Intanto la gente cominciò ad accorrere sulla piazza. Quando il sacrestano fu assicurato dal ronzio che era accorso molto popolo, si mise in fretta l’arnese che aveva portato sotto il braccio, aprì la porta della chiesa, e disse che vi era gente in casa del curato. Tutti si volsero allora verso quella casa, ma, vedendo tutto quieto, cominciarono a chiamare a gran voce il curato. Don Abbondio, che in quel momento stava a bisticciare sotto voce con perpetua, che l’aveva lasciato solo in quell’imbroglio, dovette, quando si sentì chiamare a voce di popolo, affacciarsi alla finestra per ringraziare gli accorsi ed esortarli a ritornare a casa.

Il popolo alla casetta di Lucia. – Già la gente si allontanava, quando arrivò uno tutto trafelato, il quale, abitando dirimpetto alle nostre donne, aveva visto nel cortiletto quello scompiglio dei bravi, mentre il Griso si affannava a raccoglierli. Egli si mise a gridare che il diavolo era nella casa di Agnese, dove gente armata pareva volesse ammazzare un pellegrino. Poco dopo arrivò un altro, gridando anch’egli che dei ladri scappavano con un pellegrino. A questo avviso, tutti si mossero verso la casetta, dove trovarono le tracce dell’invasione fresche e manifeste. Alcuni proposero di inseguire i rapitori, ma uno gettò la voce che Agnese e Lucia si erano messe in un’altra casa. La voce ottenne credenza, e la folla si sparpagliò, andando ognuno a casa sua.

Al mattino il console, mentre vangava nel suo campo, vide venirsi incontro due uomini, somigliantissimi a quei due che cinque giorni prima avevano affrontato don Abbondio, i quali gli intimarono che si guardasse bene dal far deposizione al podestà dell’accaduto, se aveva cara la speranza di morir di malattia.

Verso il convento di Pescarenico. – I nostri fuggiaschi camminarono un pezzo di buon trotto e in silenzio, nell’apprensione confusa del nuovo oscuro pericolo. Quando non sentirono più i rintocchi, rallentarono il passo, e domandarono a Menico cosa fosse quel diavolo in casa. Gli ascoltatori compresero più di quel che il ragazzo avesse saputo dire, e si guardarono in viso spaventati. Agnese, rammentandosi delle sue parpagliole promesse, se ne levò quattro di tasca; Renzo gli diede una berlina nuova, raccomandandogli molto di non dire nulla della commissione avuta dal frate; Lucia l’accarezzò di nuovo, e il ragazzo salutò tutti e tornò indietro. Quelli ripresero la loro strada, e poco dopo sboccarono sulla piazzetta davanti alla chiesa del convento.

Padre Cristoforo indirizza Lucia a Monza e Renzo a Milano. – Renzo sospinse la porta e gli apparve padre Cristoforo, che stava in aspettativa. Quando il padre vide i tre fuggiaschi, ringraziò Dio e li fece entrare, nonostante che fra Fazio, il laico sagrestano, si opponesse ad introdurre, contro la regola, delle donne in chiesa di notte. Ma padre Cristoforo gli troncò in bocca ogni osservazione con la frase latina: «Omnia munda mundis», che a quello, che non intendeva il latino, suonò tanto solenne quanto oscura.

Padre Cristoforo spiegò ai fuggiaschi ciò che aveva fatto accennare dal piccolo messo, supponendo che Menico li avesse trovati tranquilli in casa, prima che arrivassero i malandrini. Nessuno di essi lo disingannò, nemmeno Lucia, poiché quella era la notte degli imbrogli e dei sotterfugi. Poi il frate, rivolgendosi alle donne, disse che aveva trovato per esse un rifugio a Monza, e diede loro una lettera per il padre guardiano del convento di quella città; e, rivolgendosi a Renzo, gli consegnò una lettera per il padre Bonaventura da Lodi, nel convento dei cappuccini di Porta Orientale in Milano. Aggiunse loro di recarsi alla riva del lago, presso lo sbocco del Bione, dove avrebbero trovato una barca che li avrebbe portati all’altra riva, e, qui giunti, un baroccio che li avrebbe portati a destinazione.

Prima di partire, il padre Cristoforo volle che tutti pregassero Dio, perché li assistesse nel viaggio e desse loro forza a sopportare ciò che Egli avesse voluto. Volle pure che pregassero per don Rodrigo, che li aveva condotti a quel passo.

Dopo aver pregato, i viaggiatori uscirono di chiesa, s’avvicinarono alla riva che era stata loro indicata, entrarono nella barca, e presero il largo verso la riva opposta.

Addio monti! – Non tirava un alito di vento. I passeggeri silenziosi, con la testa voltata indietro, guardavano i monti e il paese rischiarato dalla luna e variato qua e là di grandi ombre. Lucia vide, rabbrividendo, il palazzotto di don Rodrigo, che sembrava vegliasse, meditando un delitto; scoprì la sua casetta, con la chioma folta del fico che sopravanzava il muro del cortile; e posando la fronte sul braccio, come per dormire, pianse segretamente.

Essa diede un accorato addio ai suoi monti e alla sua terra, pur confidando che Dio non turba mai la gioia dei suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande.

CAPITOLO IX

I fuggiaschi sull’altra riva. – I tre fuggiaschi, giunti sull’altra riva, resero tristemente grazie al barcaiolo, che ritirò la mano, quasi con ribrezzo, quando Renzo cercò di fargli sdrucciolare una parte dei denari che si trovava indosso, e che avrebbe voluto regalare a don Abbondio, dopo che questo, suo malgrado, avesse celebrato le nozze. Il baroccio era lì pronto, il conduttore li fece salire, diede una voce alla bestia, e si mosse.

Arrivo a Monza. – I nostri viaggiatori arrivarono a Monza, poco dopo il levar del sole; il barocciaio entrò in un’osteria e fece assegnar loro una stanza; Renzo tentò di fargli ricevere del denaro, ma inutilmente. Fecero colazione come permetteva la penuria dei temi, i mezzi scarsi e il poco appetito, mentre passava ad essi per la mente il banchetto che due giorni prima aspettavano di fare. Renzo avrebbe voluto fermarsi lì, almeno tutto quel giorno; ma il padre aveva raccomandato alle donne di mandarlo subito per la sua strada, e il giovane a malincuore si risolvette di partire.

Agnese e Lucia al convento dei cappuccini. – Agnese e Lucia si avviarono col barocciaio al convento dei cappuccini. Il barocciaio fece chiamare il padre guardiano e gli consegnò la lettera di padre Cristoforo. Il padre guardiano, nel leggerla, faceva di tanto in tanto atti di sorpresa e di indignazione; e, alzando gli occhi dal foglio, li fissava sulle donne con una certa espressione di pietà e d’interesse. Finito ch’ebbe di leggere, disse che le avrebbe accompagnate dalla «Signora», che sola avrebbe potuto prendersi quell’impegno, e invitò le donne a seguirlo, ma ad alcuni passi di distanza, per evitare le chiacchiere della gente.

Le donne domandarono allora al barocciaio chi fosse la signora, ed appresero che era una monaca, ma non una monaca come le altre, perché figlia del più grande signore di Monza, onde poteva far alto e basso nel monastero, e, quando prendeva un impegno, le riusciva anche di spuntarlo.

Giunti al monastero, il padre guardiano pregò il barocciaio che tra un paio d’ore tornasse da lui a prendere la risposta per il padre Cristoforo; poi, dopo aver fatto entrare la madre e la figlia nelle camere della fattoressa, andò solo a chiedere la grazia. Trascorso qualche tempo, ricomparve giulivo, diede qualche avvertimento alle donne sul modo di portarsi con la signora, e le accompagnò nel parlatorio, dove videro, dietro una grata di ferro, una monaca ritta, che poteva mostrare venticinque anni.

Le due donne alla presenza della Monaca di Monza. – L’aspetto della monaca faceva a prima vista un’impressione di bellezza, ma d’una bellezza sbattuta, sfiorita, e quasi scomposta. La fronte si raggrinziva spesso, come per una contrazione dolorosa; gli occhi neri si fissavano talora in viso alle persone con un’investigazione superba; le gote pallidissime sembravano come alterate da una lenta estenuazione: le labbra, appena tinte d’un roseo sbiadito, avevano moti subitanei, vivi, pieni di espressione e di mistero. Anche il modo di vestire annunziava una monaca singolare, poiché la vita era attillata con una certa cura secolaresca, e dalla benda usciva su una tempia una ciocchettina di neri capelli.

Il guardiano presentò le due donne, e spiegò alla signora che Lucia era stata costretta a partire di nascosto dal suo paese per sfuggire a un cavaliere prepotente, e che aveva bisogno per qualche tempo di un asilo sicuro. Allora la signora fece accostare Lucia, e le domandò, con una cert’aria di dubbio maligno, se quel cavaliere era un persecutore odioso; ma la povera ragazza balbettò appena qualche parola senza avere il coraggio di proseguire. Agnese si credette autorizzata a venirle in aiuto, ma la signora la interruppe bruscamente, biasimandola di parlare senza essere interrogata. Lucia confermò il racconto della madre, e la signora disse di crederle, ma che si riservava il piacere di sentirla da solo a solo. Poi aggiunse che, essendosi maritata l’ultima figlia della fattoressa, le due donne avrebbero potuto occupare la camera lasciata in libertà da quella e supplire a quei pochi servizi che faceva lei: licenziò Agnese, accomiatò il guardiano, e ritenne Lucia, cui fece strani discorsi.

Storia della Monaca di Monza. – La signora era l’ultima figlia del principe ***, gran gentiluomo milanese, che, per l’alta opinione che aveva del suo titolo, temeva che le sue sostanze fossero appena sufficienti, anzi scarse, a sostenere il decoro. Aveva perciò destinato al chiostro tutti i cadetti dell’uno e dell’altro sesso, per lasciare intatta la sostanza al primogenito, destinato a continuar la famiglia. Quando nacque la nostra infelice, il principe, volendo darle un nome che risvegliasse immediatamente l’idea del chiostro, la chiamò Gertrude. Bambole vestite da monaca furono i primi balocchi che le diedero in mano; poi santini che rappresentavano monache. Quando i genitori e il fratello primogenito solevano lodare l’aspetto prosperoso della fanciullona, le dicevano: «Ce madre badessa!». Se qualche volta la Gertrude trascorreva a qualche atto un po’ arrogante e imperioso, le si diceva: «Queste maniere non ti convengono: quando sarai madre badessa, allora comanderai a bacchetta, farai alto e basso».

A sei anni è rinchiusa nel monastero di Monza. – A sei anni Gertrude fu collocata, per educazione e ancor più per istradamento alla vocazione impostale, nel monastero dove l’abbiamo veduta, perché il padre, essendo il feudatario di Monza, pensò che lì sua figlia sarebbe stata trattata con quelle distinzioni e con quelle finezze che potessero più allettarla a scegliere quel monastero per la sua perpetua dimora. Né s’ingannava, poiché la badessa e alcune monache corrisposero pienamente elle intenzioni che il principe aveva lasciato trasparire. Gertrude, appena entrata nel monastero, fu chiamata la signorina e fu fatta oggetto di attenzioni e di premure di ogni genere.

Ma Gertrude non era la sola ragazza in quel monastero. Tra le sue compagne ve n’erano alcune che sapevano di essere destinate al matrimonio, e perciò, mentre Gertrude, nutrita nelle idee della sua superiorità, parlava magnificamente dei suoi destini futuri di badessa, quelle contrapponevano le immagini varie e luccicanti di nozze, di pranzi, di conversazioni, di festini, di villeggiatura, di vestiti, di carrozze. Queste immagini cagionarono nel cervello di Gertrude quel brulichio che produrrebbe un gran paniere di fiori appena colti, messi davanti ad un alveare. Essa rispondeva che, alla fin dei conti, nessuno avrebbe potuto costringerla a farsi monaca senza il suo consenso e che anche lei poteva maritarsi.

La supplica al vicario delle monache. – Era legge che una giovane non potesse venire accettata monaca, prima d’essere stata esaminata da un ecclesiastico, chiamato il vicario delle monache, affinché fosse certo che si chiudeva nel monastero di sua libera scelta; e questo esame non poteva aver luogo se non un anno dopo che essa avesse esposto a quel vicario il suo desiderio con una supplica in iscritto. Quelle monache che avevano preso il tristo incarico di far che Gertrude si obbligasse per sempre, colsero un momento propizio per farle sottoscrivere una tal supplica, dicendole che si trattava (come si trattava di fatto) di una pura formalità. Con tutto ciò, la supplica non era forse ancor giunta al suo destino, che Gertrude s’era pentita di averla sottoscritta.

Il mese fuori dal monastero e la lettera al padre. – C’era poi un’altra legge, che una giovane non fosse ammessa a quell’esame della vocazione, se non dopo aver dimorato almeno un mese fuori dal monastero, dove era stata in educazione. Anche Gertrude, trascorso l’anno da che la supplica era stata mandata, doveva essere levata dal monastero e condotta nella casa paterna, per rimanervi quel mese e far tutti i passi necessari al compimento dell’opera che aveva di fatto cominciata. Ma la giovane aveva tutt’altro in testa, e, in tali angustie, risolvette di aprirsi con una delle sue compagne, che le suggerì d’informare con una lettera il padre della sua nuova risoluzione. Ma Gertrude aspettò invano una risposta. Se non che, alcuni giorni dopo, la badessa la fece venire nella sua cella, e, con un contegno di mistero, le accennò oscuramente a una gran collera del principe per un fallo che essa doveva aver commesso, lasciandole però intendere che, portandosi bene, poteva sperare che tutto sarebbe dimenticato.

Venne finalmente il giorno tanto temuto e bramato, nel quale Gertrude dovette lasciare il monastero per ritornare temporaneamente nel palazzo paterno. I giorni passavano senza che il padre né altri le parlasse della supplica, né della ritrattazione. I parenti erano seri, tristi, burberi con lei, senza mai dire il perché. Si vedeva solamente che la riguardavano come una rea, come un’indegna. Se implorava un po’ d’amore, si sentiva subito toccare, in maniera indiretta ma chiara, quel tasto della scelta dello stato; le si faceva copertamente sentire che c’era un mezzo per riacquistare l’affetto della famiglia.

Lo sciagurato biglietto al paggio. – Ma Gertrude si accorse che, mentre dalla servitù era trattata con noncuranza, accompagnata da un leggero ossequio di formalità, un paggio le portava un rispetto e sentiva per lei una compassione di un genere particolare. Essa mostrò un non so che di nuovo nelle sue maniere, così che le furono tenuti gli occhi addosso più che mai. Una mattina fu sorpresa da una cameriera, mentre stava piegando alla sfuggita una carta, sulla quale avrebbe fatto meglio a non scrivere nulla. La carta rimase nelle mani della donna, e da queste passò in quelle del principe, che, dopo poche ma terribili parole, le intimò di star chiusa in quella camera sotto la guardia della cameriera che aveva fatto la scoperta, e le minacciò un altro castigo oscuro, indeterminato, e quindi più spaventoso. Il paggio fu subito sfrattato, e fu minacciato anche lui di qualcosa di terribile se avesse osato parlare dell’accaduto.

Gertrude implora il perdono del padre. – Gertrude rimase col batticuore, con la vergogna, col rimorso, col terrore dell’avvenire, e con la sola compagnia di quella donna che era stata cagione della sua disgrazia. Il solo castello, nel quale poteva immaginare un rifugio tranquillo e onorevole, e che non fosse in aria, era il monastero, quando si fosse risolta di entrarvi per sempre. Dopo quattro o cinque giorni di prigionia, essa, stuccata e invelenita all’eccesso per un dispetto della guardiana, sentì il bisogno prepotente di vedere altri visi, di sentire altre parole, di essere trattata diversamente. Allora riprese quella penna fatale, scrisse al padre una lettera piena d’entusiasmo e d’abbattimento, d’afflizione e di speranza, implorando il perdono, e mostrandosi indeterminatamente pronta a tutto ciò che potesse piacere a chi doveva accordarlo.
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